di Agnese Licata

Come sarà il mondo tra trent’anni? Con quali tecnologie avremo a che fare? Gli Stati Uniti saranno ancora i padroni indiscussi dei giochi geopolitici mondiali? L’economia, la globalizzazione, continueranno a favorire l’accumularsi della ricchezza nelle mani di pochi? E poi, come cambierà la società civile, quale sarà il nuovo equilibrio tra le classi sociali? Prova a guardare nella sfera di cristallo, il ministero della Difesa inglese (MoD). Lo fa ad uso e consumo delle forze armate britanniche, per capire come prepararsi al meglio al mondo che la prossima generazione potrebbe trovarsi davanti. Lo “scenario strategico futuro” – precisa il rapporto stesso - vuole individuare tendenze, portare avanti un’analisi “più probabilistica che preveggente”, perché troppo spesso la storia procede per salti, in modo discontinuo e imprevedibile.

di Elena Ferrara

C’è, nel mondo, un campo praticamente sconosciuto che molti, sembra, non hanno voglia di indagare e scoperchiare. Le culture dominanti glissano e il disordine mondiale favorisce l’oblio. Ma la realtà è sotto gli occhi. E a viverla in modo tragico sono quei bambini privati del diritto all'istruzione, perché “colpevoli” di essere nati in Paesi colpiti da guerre o che ancora recano le devastanti ferite dei conflitti armati. Ed è questo – ricordiamolo – lo specchio apocalittico dell’oggi. Facciamo parlare i fatti tenendo conto che nei prossimi giorni questi problemi dovrebbero essere affrontati (finalmente) nel meeting annuale della Banca Mondiale e in una conferenza sull’educazione generale. Al centro di questi due importanti incontri internazionali ci sarà il tema dell’alfabetizzazione dei giovani e dei giovanissimi. Una questione scottante, poco nota. Ecco i fatti e i dati. Sono 77 milioni nel mondo i bambini che non vanno a scuola. E 39 milioni di essi – ovvero più della metà del totale – vive in uno dei 18 paesi ancora in guerra o nei 10 paesi considerati “fragili” e reduci da conflitti - dove 1 bambino su 3 non ha accesso all'istruzione primaria.

di mazzetta

Non è dato sapere se la guerra che Letizia Moratti ha dichiarato alla chinatown milanese trovi origine nella semplice strumentalizzazione dell’immigrato, già tristemente praticata dalle giunte milanesi, o da appetiti immobiliari non ancora usciti allo scoperto, ma è un dato certo che si sia arrivati ad una situazione che sarebbe stato meglio evitare per colpa di una buona dose di razzismo, malamente mascherato, dalle parti di Palazzo Marino. Quello che ha fatto più impressione in questi ultimi giorni è stato lo snocciolarsi della litania di luoghi comuni razzistici sui cinesi. Come se nulla fosse, sui principali media si sono visti e sentiti commenti che una persona normale si augurerebbe di non vedere mai diffusi. Alcuni rappresentanti della politica milanese, nell’occasione, hanno svuotato il truogolo della retorica razzista sul pubblico italiano, cercando il plauso degli stessi italioti che da anni cercano di spaventare con il timore delle invasioni straniere.

di Elena G. Polidori

Sei morti in 24 ore, l’ultima strage bianca che ha fatto urlare “basta” al Capo dello Stato e che, ovviamente, non sarà l’ultima. "Non ci sono più parole per esprimere sdegno e dolore – ha commentato irato Napolitano - è ora di decidere e agire". Dopo i caduti di Genova, Monza, Brescia e Latina, sabato un operaio di 53 anni, Santo Cacciola, è morto a Messina perché un montacarichi gli ha ceduto sotto i piedi. Contemporaneamente in Sardegna, Felice Schirru, di Sinnai, 33 anni, è stato travolto da un tubo in acciaio che veniva spostato con una gru da un'autocarro. Altri due operai, dunque, che si aggiungono alla schiera di quelli che Prodi ha definito “martiri”. Pur comprendendo ciò che il Primo Ministro voleva denunciare, non sembra però il termine giusto; non ci si immola certo per un salario, ne si va a lavorare sospinti dall’idea che la nostra vita possa acquisire un’importanza secondaria rispetto a quella di portare a casa la pagnotta. E’ l’esatto contrario: si lavora per vivere, non per morire. Più che martiri, dunque, i caduti sul lavoro sono morti ammazzati, vittime di omicidi che l’attuale cultura del lavoro ha reso solo merce disponibile, declassificando le risorse principali di un’impresa ad oggetti subordinati, interscambiabili tra loro. Siamo tutti utili come bulloni, diventiamo tutti un problema contabile quando chiediamo dignità e sicurezza. E la politica riesce a rispondere solo pensando di “privatizzare” il ruolo degli ispettori del lavoro.

di Alessandro Iacuelli

Che i traffici di merci e rifiuti tra Italia e Cina prosperino, non è certo una novità, né tantomeno la cosa dovrebbe meravigliare: dopo l'innalzamento della guardia, avvenuto negli anni '90, nei confronti delle rotte transfrontaliere illecite verso l'Africa, è l'Asia il nuovo terminale dei traffici marittimi di rifiuti, scorie, veleni. Stavolta, secondo gli agenti della squadra mobile di Roma, quello che è venuto alla luce è un traffico di rifiuti industriali. Con l'intervento dell'Ufficio Antifrode centrale dell'Agenzia delle Dogane sono state eseguite 88 perquisizioni in tutta Italia, e ne è emerso che discrete quantità di rifiuti industriali prodotti in Italia, invece di essere smaltiti, venivano esportati in Cina. Sembrerebbe non esserci nessuna novità, d'altronde si tratta di poche tonnellate di materiali sequestrati, che appaiono ben poca cosa rispetto ai 6 milioni di tonnellate smaltite in Campania negli ultimi 20 anni, o alla quantità incalcolabile - sempre in milioni di tonnellate - di scorie mandate in tutta l'Africa nell'arco di un secolo. Eppure, a guardare bene, una novità c'è.


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