Oltre il perimetro giuridico dell’istituto della cittadinanza, è invisibile l’esistenza di un abitare migrante, sotto il cui tetto si nasconde una complessità che travalica la prospettiva dell’alloggio come spazio fisico e raggiunge il concetto di casa come “nodo di molteplici interazioni e come possibilità di accedere agli spazi della vita urbana”, si legge nel report “Geografie dell’abitare migrante e diritto alla città”, redatto da Actionaid.

 

Da un punto di vista generale, il problema italiano non è l’assenza di alloggi ma l’incalzante corsa alla proprietà privata che esclude drammaticamente le persone vulnerabili con l’aggravante del progressivo restringimento delle politiche abitative pubbliche. “In questo scenario - dice il report - i migranti rappresentano una fascia particolarmente debole della domanda abitativa in Italia”.

 

Per la condizione di svantaggio economico che li inquadra nelle fasce più basse della stratificazione dei redditi e per la posizione sociale e giuridica, ai migranti viene riservato il settore più degradato e inadeguato del patrimonio abitativo, sia per gli spazi sia per le caratteristiche strutturali degli immobili che, altrimenti, non potrebbero essere collocati sul mercato.

 

Sebbene in Italia sia difficile “riscontrare situazioni di vera e propria segregazione residenziale”, ciò non esclude la presenza di processi di ghettizzazione e marginalizzazione: perché alle dinamiche di concentrazione abitativa si associano pratiche pubbliche e discorsi politici fortemente “razzializzanti”.

 

Dal decreto Sicurezza e immigrazione in poi, infatti, la “rinegoziazione al ribasso degli standard di accoglienza, le lungaggini del processo burocratico di valutazione della richiesta di asilo, la residualità di percorsi di reale inclusione e la difficoltà nel raggiungimento dell’autonomia per le persone in uscita dall’accoglienza” aumentano i cittadini stranieri esposti ai rischi del disagio abitativo.

 

Sul quale, seppure non esistano tanti studi al riguardo, riferibili a richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, la tendenza alla crescita di situazione abitativa informale è elevata.

 

Oltre ai noti ghetti del sud Italia e alle baraccopoli vicino ai CARA, sono proliferate sistemazioni informali, soprattutto fra coloro che sono usciti dal sistema di accoglienza istituzionale privi di strumenti di orientamento nel mercato della casa o mossi da percorsi di rivendicazione di diritti.

 

Queste forme del (dis)abitare migrante si concretizzano nell’impossibilità di iscrizione anagrafica e nelle pratiche discriminatorie (e illegittime) delle amministrazioni locali che si perdono in un dedalo di ordinanze comunali e di circolari varie di difficile tracciabilità.

Sempre al passo con i tempi, sa adattarsi ai gusti e alle abitudini degli italiani. A volte, anche anticipandoli, senza zone franche: la criminalità è, sempre più spesso, ospite indesiderata nelle tavole degli abitanti del Belpaese. Tanto che, rispetto a due anni fa, il sesto Rapporto sui crimini agroalimentari, redatto da Euispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, stima una crescita delle fatturato delle agromafie, quantificabile in almeno ventiquattro milioni e mezzo di euro, circa il 10 per cento del fatturato totale generato da affari illeciti.

I sentimenti sono estremizzati. Le sofferenze sono quotidiane. Alcune sono madri. Sono Donne in transizione, raccontate nella ricerca de La società della regione, intervistate nelle carceri di Pisa e Sollicciano, che descrivono l’esperienza femminile della reclusione. Emerge la centralità del fattore emotivo: un’emotività a volte cieca, che spinge a conflittualità e aggressività: “Siccome in carcere non si sceglie con chi stare, c’è un problema di quotidiana gestione degli spazi e delle cose”, si legge.

 

Perché la cella, sebbene debba essere condivisa, è sempre vissuta come spazio di privacy (anche simbolicamente). E “la perdita di controllo sugli spazi e sulle relazioni (…) può appesantire i rapporti che possono, però, anche essere coltivati” perché le celle degli istituti presi in esame sono aperte per dodici ore al giorno.

 

Per sollevarsi dalla pervasività del carcere, le detenute fanno uno sforzo attivo per la cura dell’ambiente: oltre che per l’adattamento, prendersene cura diventa un fattore di protezione: “In media, le donne hanno risorse e questo permette che il tempo scorra abbastanza adeguatamente, fatta salva la privazione della libertà, il carcere è carcere ma sembrano più attrezzate a reggerlo”. Forse perché “in genere, le donne fanno gruppo e si oppongono a chi si isola”, rimandando all’importanza della dimensione collettiva e della cura dell’altra. Che “riempie di significato le relazioni”, diventando una risorsa fondamentale di resilienza al carcere.

 

La cura dell’altra, infatti, non si esaurisce nell’accudimento ma libera “competenze di natura intellettiva, potenziando le capacità di stare al mondo”. Per esempio, in luogo “della dinamica caotica del rapporto fra donne, compare l’immagine di donne che sanno elaborare il conflitto e gestirlo in modo da non diventare violente”. Mentre la cura del sé è, più che altro, “un aggancio alla continuità col fuori carcere”.

 

La loro più grande sofferenza deriva dal carattere totalizzante della dipendenza, non solo come conseguenza connaturata alla detenzione, ma anche per i meccanismi di “minorazione” che sono vissuti come mortificazione dell’identità. Perché non sono messe in grado di conoscere e comprendere e perciò di acquisire elementi per costruire la propria “mappa cognitiva”, conducendole a una “infantilizzazione”, incapaci di mettere all’opera le “abilità di vita” proprie dell’adulto. E “non sempre la domanda della donna detenuta è compresa nel suo reale e più profondo significato di ottenere una chiave di accesso agli imperscrutabili meccanismi che governano la propria esistenza”.

 

Ad elevare il livello di disagio in carcere, la lontananza dai figli, che una certa cultura punitiva e segregante presente in molte istituzioni aggrava: i rapporti materni sono spesso possibili (solo) per il percorso premiale che sembra suggerire l’idea che il mantenimento di questo legame non rientri nei diritti ma nelle concessioni subordinate alla dimostrazione della detenuta di essere una buona madre altrimenti sospetta di non meritare i figli.

 

E anche in carcere si fa sentire il peso delle impari opportunità: dalla carenza di percorsi formativi e ricreativi rivolte alle donne alle disparità economiche. Alla base, c’è da rimuovere una carenza strutturale di attenzione alle donne in carceri strutturalmente maschili. Insomma, “l’esperienza storica carceraria femminile acuisce la vista su alcuni aspetti che sono cruciali per progettare il cambiamento (…) e si rivela una fonte preziosa per pensare un carcere diverso e meno afflittivo: per donne, così come per uomini”.

Quindici milioni di euro. A tanto equivale lo spreco alimentare di filiera, dalla produzione alla distribuzione, valendo lo 0,88 per cento del Prodotto Interno Lordo italiano. E undici miliardi, rappresentando i quattro quinti dello spreco complessivo, quello misurato nelle case degli abitanti del Belpaese. A dare i numeri, in occasione della sesta Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, Waste Watcher, alla Fao.

 

Mentre ottocentoventuno milioni di individui sulla terra soffrono la fame e una persona su tre è malnutrita, una persona su otto è affetta da obesità e il 20 per cento degli intervistati nel Rapporto 2019 dichiara che lo spreco alimentare non è domestico bensì nel commercio e nel pubblico, dalle scuole agli ospedali, dagli uffici alle caserme.

Non sono solo le condizioni meteo-climatiche della pianura padana a determinare l’inquinamento atmosferico in Italia. A dirla con l’ISPRA e con l’Agenzia Europea per l’ambiente, a inquinare l’aria delle città italiane è la mobilità insostenibile. Sono il particolato sottile, l’ossido d’azoto e l’ozono troposferico che nel 2018, secondo il dossier Mal’Aria di città 2019 di Legambiente, hanno superato i loro limiti giornalieri consentiti in ben cinquantacinque capoluoghi di provincia. Come se i cittadini di questi centri urbani avessero respirato aria malsana per quattro mesi di fila.


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