di Ilvio Pannullo

Era la metà di ottobre e in Sardegna i rappresentanti degli agricoltori e dei pastori iniziavano lo sciopero della fame nella sala del consiglio comunale di Decimoputzu. Protestavano per la vendita all’asta di 5.000 aziende agricole. Vendita all’asta richiesta dal Banco di Sardegna in forza di un credito pari all’equivalente di quasi l’intera produzione agricola annua di tutte le aziende sarde. Il credito del Banco, che vanta per effetto dell’applicazione della legge regionale 44/88, dichiarata poi illegale dalla UE, ammonta a 700 milioni di euro. Tutto inizia nel dicembre del lontano 1988 quando viene emanata la legge regionale n.44 che istituisce, all’art.5, un regime di aiuti sotto forma di mutui a tasso agevolato per favorire la ricostituzione della liquidità di aziende agricole in difficoltà. Spetta alla Giunta regionale deliberare di volta in volta, a seconda delle necessità, le modalità pratiche di concessione dei mutui. E verrà fatto per ben quattro volte. Nell’ultima occasione, le cose vengono fatte per bene, così, con lettera del primo settembre 1992, l’Italia notifica alla Commissione Europea la legge regionale n.17 della Regione Sardegna. L’art. 12 di suddetta legge rimandava, per le modalità tecniche di esecuzione, all’art. 5 della legge n.44/88 della stessa regione, mai notificata alla Commissione europea.

di Giovanna Pavani

In un paese civile, con regole sociali certe, quello che è accaduto giorni fa a Cittadella, comune di 20 mila anime alle porte di Padova, sarebbe stato degno solo di una vignetta satirica su un giornale. Come quelle, per dire, che con lo sghignazzo ci fanno pensare a quanto una cosa possa essere inutile, sbagliata e, soprattutto immorale. Ma ormai, in quest’Italia dove l’immigrazione fa più paura delle tasse e dove la caccia al clandestino si è ufficialmente aperta con l’omicidio di Daniela Reggiani a Roma, fatti come quelli di Cittadella sono salutati da grida scomposte di giubilo e di apprezzamento. Protagonista di questa storia di stampo razzista e discriminatorio è il sindaco di questa ridente località, Massimo Bitonci, eletto lo scorso maggio a capo di una lista civica sostenuta dalla Lega e da An. Con un’ordinanza che, a suo dire, ricalca un decreto legislativo del 2007, il primo cittadino padano ha imposto uno sbarramento d’ingresso alla richiesta di residenza. Se non hai un reddito minimo di 420 euro al mese (ovviamente non al nero) e una casa “salubre e decente” in cui vivere con il tuo nucleo familiare è meglio che non ci provi neppure a passare il confine di Cittadella. Tanto non ti facciamo entrare.

di Sara Nicoli

Sembra quasi una “non-notizia” quella che ieri mattina è apparsa su Repubblica rivelando, brogliacci di intercettazioni alla mano, che tra Rai e Mediaset esisteva un patto per la gestione dei palinsesti durante gli eventi più critici e delicati della vita del Paese e, soprattutto, per un'ottimizzazione a quattro mani della visibilità e della propaganda di Berlusconi. Insomma, quello che è sempre stato sotto gli occhi di tutti, perchè tutti guardano la televisione, si è concretizzato nelle parole dei dirigenti Rai a colloquio con i loro omologhi di Mediaset, per bilanciare notizie di primaria importanza (la morte del Papa, per esempio), con eventi elettorali e politici in modo da enfatizzare (o nascondere, a seconda della circostanza) quanto al Cavaliere facesse più piacere. Nulla di più noto e tangibile solo schiacciando il telecomando. Nulla che non si sapesse e che non si è mai voluto davvero risolvere perchè a tutti faceva comodo così. Perno dell'intera vicenda la dirigente responsabile del marketing strategico della Rai, Deborah Bergamini, ex segretaria particolare di Berlusconi, elevata ad altissimo rango dirigenziale della tv pubblica quando il Cavaliere era al governo. Ruolo della Bergamini era (ed è) quello di funzionare da interfaccia con Mediaset e con altri dirigenti Rai asserviti al Biscione per veicolare l'informazione pubblica a beneficio del proprietario della concorrenza e, all'epoca, presidente del Consiglio. Come dire: che ci fosse il conflitto d'interessi lo sapevano tutti, ma ora sappiamo anche chi lo faceva funzionare, con buona pace di tutti gli altri dirigenti Rai che per non avere rogne preferivano lasciar correre.

di Matteo Selva

Le intercettazioni telefoniche realizzate tra la fine del 2004 e la primavera del 2005 per far luce sul fallimento della “Hdc”, la holding di Luigi Crespi, ex sondaggista del Cavaliere e inventore del famoso “contratto con gli italiani”, hanno portato a galla una rete segreta con la quale il Cavaliere pilotava Rai e Mediaset. Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano La Repubblica, Rai e Mediaset avrebbero concordato “le strategie informative nel caso dei grandi eventi della cronaca e orchestrato i resoconti della politica. Su tutto, la grande mano di Silvio Berlusconi e dei suoi collaboratori che quotidianamente tessevano la tela, facevano centinaia di telefonate e si scambiavano notizie, organizzando tutto fino ai più piccoli dettagli”. Le intercettazioni metterebbero in chiara evidenza che tra i dirigenti delle due Tv, da sempre all’apparenza concorrenti, ci sia stato un fitto scambio di informazioni sui rispettivi palinsesti, soprattutto in occasione della morte di Papa Giovanni Paolo II e delle elezioni amministrative del 2005 e, cosa ancor più grave, una pianificazione dei rispettivi palinsesti nell’esclusivo vantaggio del leader della destra. In realtà, non c’era bisogno delle intercettazioni per rendersi conto di quanto era già chiarissimo, ma il quadro che emerge è inquietante, soprattutto in relazione ai vari personaggi alternatisi al telefono della Bergamini e le relazioni tra loro e con i direttori del Tg1 e del Tg5 a fare, testuale da trascrizioni, “gioco di squadra”.

di Sara Nicoli

E’ strano, ma tutte le volte che si parla di ciò che accade in Rai, è sempre un fatto clamoroso. Nel male, ovviamente. Anche stavolta, la tradizione è puntualmente rispettata. La sentenza del Tar del Lazio, favorevole al reintegro del consigliere di Forza Italia, Angelo Maria Petroni, nel Cda di Viale Mazzini, era nelle ipotesi più probabili. Ma solo la cocciutaggine del ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa (che come titolare del Tesoro è azionista totalitario dell'azienda), ha potuto ingarbugliare la situazione già di per sé critica del servizio pubblico. Certo, anche l'insipienza della maggioranza di centro-sinistra ha fatto il suo danno, non esprimendosi sull'azione di responsabilità verso i 5 consiglieri espressi dalla Cdl, colpevoli di "danno erariale" per aver avallato l'illegittima nomina a direttore generale di Alfredo Mocci. E senza dare una poderosa accelerata alla riforma della "governance" della RAI ( il meccanismo di nomina dei suoi vertici) che staziona in commissione al Senato. Il tutto ha creato quel combinato disposto di confusione politico e amministrativa che ha portato a sconfitta certa l'operato del governo davanti al Tar del Lazio.


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