di Marco Montemurro

L’accordo di cooperazione nucleare stipulato tra Stati Uniti e India è stato definitivamente approvato. Una delle ultime mosse dell’amministrazione Bush è stata condotta a termine il 10 ottobre quando il ministro degli affari esteri indiano, Pranab Mukherjee, ha firmato ufficialmente il trattato con la presenza del Segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice. E’ un evento che sicuramente avrà ripercussioni in futuro nel settore dell’energia nucleare in tutto il mondo. Il trattato tra Usa e India rischia di aprire la strada verso accordi bilaterali tra singoli paesi riguardo la compravendita di materiale nucleare. E’ un precedente che è destinato a porre limiti all’influenza degli organismi sopranazionali. Il nuovo legame mette in discussione i principi di universalità contenuti nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Lo storico accordo, stipulato nel 1968 per regolare e sorvegliare il possesso di materiale nucleare, si basa infatti proprio sul presupposto che sia necessario porre limiti a tali tecnologie agendo sul piano internazionale e tramite la vigilanza di enti sovranazionali.

di Bianca Cerri

Vista da fuori, le baraonde elettorali negli Stati Uniti sembrano feste di paese, dove abbondano retorica stucchevole, sentimentalismi sopra le righe, patriottismo ridondante, ecc. ecc. Ma dietro le quinte si scopre invece che ci si trova di fronte ad una commedia dell’assurdo sofisticata e costosa a base di legami illeciti, falsità morali, interessi economici e fantascienza dialettica messa in scena dalle elites finanziarie che si rinnovano ogni quattro anni per assegnare ad un unico uomo il dominio dell’intero pianeta allo scopo di accrescere e tutelare i propri interessi. D’altra parte, i padri fondatori che nel 1789 diedero vita alla Costituzione americana avevano già intuito che solo legittimandosi come “rappresentanti del popolo” avrebbero consolidato i loro privilegi e quelli della upperclass. Il peso del passato è avvertibile ancora oggi nel bipartitismo che caratterizza il sistema politico degli Stati Uniti. Dal 1860 in poi tutte le elezioni sono state vinte da un democratico o da un repubblicano e lo stesso dicasi per la totalità del Congresso.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. “Se i democratici vogliono vincere le elezioni presidenziali, non dovranno semplicemente battere McCain nei seggi; dovranno batterlo con un margine superiore al livello di irregolarità messe in pratica dai repubblicani.” Questa è la conclusione dell'inchiesta sulle frodi elettorali repubblicane, pubblicata sull'ultimo numero di Rolling Stone. Così si spiegano i pressanti appelli al voto di Obama e di tutti i democratici, che nonostante otto punti di vantaggio nei sondaggi insistono sulla necessità di una larghissima affluenza per vincere le elezioni. Per evitare che ritorni lo spettro del 2000, quando Bush vinse per cinquecento voti in Florida dopo una massiccia campagna di cancellazione di voti ed elettori. I democratici questa volta hanno giocato d'anticipo sguinzagliando da settimane pattuglie di avvocati in tutti gli stati amministrati da repubblicani, per vigilare sulla registrazione elettorale.

di mazzetta

I bookmakers danno Obama vincente 1 a 7, McCain sta combattendo in difesa in quegli stati che erano parte dello zoccolo duro di Bush e rischia anche nel suo stato, l'Arizona. L'ultima settimana di campagna è stata un disastro per McCain e non solo perché è a corto di soldi. La macchina elettorale di Obama è decisamente più prestante di quella repubblicana, ha raggiunto aree mai toccate prima dalle campagne e gode del sostegno di migliaia di attivisti, molti di più di quanti ne siano schierati sul fronte avverso. McCain sembra un generale senza esercito e il partito repubblicano sta tentando l'impossibile per salvare i seggi al Congresso, minacciati come mai prima da una vera e proprio disfatta elettorale. Poco possono i tentativi di giocare sporco in un'arena mediatica ormai profondamente influenzata da Internet e ancora meno i tentativi di diffamare gli avversari.

di Valentina Laviola

Manca ormai pochissimo all’elezione del quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti e per l’influenza enorme che questo Paese ha sulle sorti globali, in molti rimangono col fiato sospeso. Ora che la campagna elettorale dovrebbe aver dato i suoi frutti, si possono tirare le somme e proporre delle riflessioni sulle scelte operate dai due candidati nel coinvolgimento (mancato) delle comunità arabe e musulmane d’America. Pur trattandosi di minoranze, l’approccio alla questione non manca di portare con sé implicazioni enormi, legate agli eventi dell’11 Settembre 2001, alle recenti guerre in Afghanistan ed Iraq, alla diffusa ideologia, largamente prodotta dall’amministrazione Bush, che vede nell’Islam principalmente, e spesso solamente, il nemico. In che modo risponderanno, nelle nuove elezioni, i cittadini americani di etnia araba o di fede musulmana? Sembra che essi si siano sentiti quasi completamente esclusi dal fermento politico degli ultimi mesi, sostanzialmente ignorati da entrambi i candidati. Insomma, non sono stati considerati un serbatoio di voti sufficientemente appetibile da correre il rischio di pronunciare dichiarazioni che avrebbero potuto far tremare sostenitori ben più potenti.


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