Come annunciato qualche giorno fa dallo stesso Donald Trump, martedì è arrivata la conferma ufficiale dell’incriminazione dell’ex presidente americano per i fatti legati all’assalto del Congresso di Washington il 6 gennaio 2021. Sono quattro i capi d’accusa che un “grand jury” federale ha contestato all’ex inquilino della Casa Bianca in un procedimento tardivo che lascia aperte più questioni di quante intenda risolverne. Il caso si aggiunge a una lunga serie di cause legali che stanno interessando Trump alla vigilia dell’inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2024, due delle quali già sfociate in altrettante incriminazioni formali.

Le imputazioni sono il risultato dell’indagine condotta dal procuratore speciale Jack Smith, nominato dal dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Biden, basatasi a sua volta sul lavoro della commissione della Camera dei Rappresentanti che aveva cercato di fare luce sulla rivolta fomentata da Trump per fermare il processo di ratifica della vittoria elettorale di Joe Biden nelle elezioni del novembre 2020. I quattro capi d’accusa sono: cospirazione per frodare gli Stati Uniti; cospirazione per ostacolare un procedimento ufficiale; ostacolo e tentativo di ostacolare un procedimento ufficiale; cospirazione contro il diritto di voto.

Il golpe militare di qualche giorno fa in Niger ha dato l’impressione a molti osservatori di essere l’ultima tessera del domino a cadere in una regione, come quella del Sahel, flagellata da oltre un decennio di fallimentari politiche “anti-terroristiche” promosse dall’Occidente. Come e ancor più dei vicini Mali e Burkina Faso, il Niger rappresenta un caso interessante per il futuro degli equilibri strategici in Africa e il successo o meno della giunta appena installatasi al potere nella capitale, Niamey, dipenderà in larga misura dalla risposta degli attori internazionali coinvolti, dalla Francia agli Stati Uniti, fino alla Russia.

Le vicende giudiziarie del figlio del presidente degli Stati Uniti, Hunter Biden, continuano a essere al centro dello scontro politico americano a pochi mesi dall’inizio della stagione elettorale 2024 che minaccia di essere dominata dai guai legali dei due candidati che quasi certamente si sfideranno per la Casa Bianca. Il secondogenito di Joe Biden si è visto annullare questa settimana da un giudice federale il patteggiamento che aveva concordato con la procura dello stato del Delaware per evitare un’accusa relativamente grave legata al possesso illegale di un’arma da fuoco.

Questi ultimi sviluppi hanno colto di sorpresa gli ambienti politici di Washington, dove il caso ha infiammato ancora di più le polemiche nell’ala del Partito Repubblicano più vicina a Donald Trump e che chiede un procedimento di impeachment contro l’attuale inquilino della Casa Bianca. L’eventuale incriminazione del presidente sarebbe collegata a questioni diverse che riguardano la famiglia Biden, ma durante il dibattito di mercoledì nel tribunale del Delaware sono emersi elementi che ad esse si ricollegano direttamente. Inoltre, la mancata ratifica del patteggiamento ha gettato benzina sul fuoco del conflitto politico in atto.

Scioperi e proteste in tutto il paese sono proseguiti nella giornata di martedì contro l’approvazione in via definitiva, da parte del parlamento israeliano (Knesset), della prima tranche della “riforma” del sistema giudiziario dello stato ebraico voluta dal governo di estrema destra del primo ministro Netanyahu. La legge ultra-controversa cancella di fatto il potere della Corte Suprema di giudicare ed eventualmente bocciare le leggi approvate dal parlamento. Lo scontro politico che ne è derivato minaccia ora di destabilizzare Israele e il suo regime, spazzando via quel residuo di apparenza di legittimità democratica necessaria ad assicurare l’appoggio degli alleati occidentali e della comunità ebraica internazionale.

La questione del grano ucraino è sintomatica della Grande Mistificazione che avvolge il conflitto tra Occidente e Russia. In premessa c’è da dire che sia la Russia che l’Ucraina sono due potenze nella produzione di grano. La Russia, addirittura, è il primo produttore al mondo, avendo già da anni superato Stati Uniti, Canada e Australia, oltre che l’Ucraina, un tempo granaio della Unione Sovietica. Lo scorso anno, con la firma del Black Sea Grain Initiative, Mosca aveva accettato, contro il suo interesse, di garantire il passaggio delle navi ucraine contenenti grano e cereali sul Mar Nero.


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