L’approdo al governo spagnolo dell’estrema destra erede del franchismo dopo quasi cinquant’anni dalla fine della dittatura sembra essere stato per il momento sventato in seguito al sorprendente esito delle elezioni di domenica. Il Partito Socialista (PSOE) e gli alleati della piattaforma di sinistra Sumar hanno infatti superaro le aspettative della vigilia recuperando terreno fino a impedire quasi certamente la formazione dell’esecutivo di coalizione che avrebbe dovuto essere composto dal Partito Popolare (PP) e dalla formazione neo-fascista Vox. Il risultato è una nuova camera bassa del parlamento spagnolo senza una maggioranza logica ipotizzabile, ma con i socialisti del premier uscente, Pedro Sánchez, teoricamente in grado di mettere assieme i seggi necessari per un nuovo mandato alla guida del paese.

Il vertice di Bruxelles tra Unione Europea e CELAC si è concluso in pompa magna, pur confermando i contrasti tra europei e latinoamericani. Il comunicato finale sottolinea la necessità di porre fine al blocco contro Cuba e di rimuoverla dalla lista dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo. Questo è certamente un risultato positivo e da sottolineare, ma si tratta di punti in qualche modo scontati, dato che storicamente l'intera UE ha votato all'ONU a favore della revoca del blocco illegale e unilaterale degli Stati Uniti contro Cuba.

Semmai c’è da evidenziare come, pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha nuovamente votato una mozione di condanna molto forte nei confronti di Cuba, ma tre giorni dopo l'UE si è presentata alla CELAC per convincerli della linea politica comune. È perfettamente inutile sostenere che il Parlamento europeo è un'istituzione legislativa con una propria autonomia, poiché l'UE sostiene a livello governativo gli orientamenti di politica estera decisi dal PE. È solo in questa ipocrisia che risiedono l'arroganza europea e l'ingenuità (o in alcuni casi la connivenza) dei Paesi latinoamericani.

Una recente esclusiva, o presunta tale, del Wall Street Journal ha rivelato questa settimana come i leader di fatto dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti siano da qualche tempo ai ferri corti, tanto che l’erede al trono della casa regnante a Riyadh, Mohammad bin Salman (MBS), avrebbe privatamente minacciato durissime sanzioni contro l’alleato-rivale emiratino.

Un nuovo attacco ucraino contro il ponte di Crimea nelle prime ore di lunedì è tornato a danneggiare l’opera che più di ogni altra simboleggia il controllo russo sulla penisola annessa da Mosca con l’appoggio della stragrande maggioranza dei suoi abitanti all’indomani del golpe neonazista del 2014. Secondo le autorità russe, a colpire sono stati due droni acquatici che, oltre a danneggiare una sezione della linea stradale, hanno causato la morte di due civili e il ferimento di una ragazzina. L’iniziativa conferma come il regime ucraino continui a prendere di mira deliberatamente edifici e infrastrutture civili ed è perciò un ulteriore segnale della disperazione che regna a Kiev e tra i governi occidentali, la cui assistenza è stata con ogni probabilità decisiva per portare a termine l’operazione di lunedì in Crimea.

Proteste di massa e pericolo concreto di destabilizzazione del paese sono tornati a caratterizzare la vita quotidiana dello stato ebraico in parallelo al rilancio, da parte dell’esecutivo di estrema destra del premier Netanyahu, dei piani di “riforma” del sistema giudiziario israeliano. Dopo qualche mese di sospensione, la legge ultra-controversa che ridimensiona drasticamente il ruolo della Corte Suprema ha superato questa settimana il primo ostacolo legislativo, innescando nuove manifestazioni pubbliche e clamorose azioni di resistenza dentro gli organi dello stato. Sullo sfondo restano le dinamiche regionali in pieno fermento, con gli Stati Uniti fortemente allarmati per i riflessi sui propri interessi strategici della deriva autoritaria del regime di Tel Aviv.


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