La giustizia australiana ha emesso martedì per la prima volta in assoluto un verdetto di condanna in un caso di crimini di guerra collegato ai due decenni di occupazione militare dell’Afghanistan. A ricevere la condanna non è stato però nessuno dei militari che ha commesso materialmente oppure facilitato o insabbiato questi crimini, nonostante le prove per farlo siano da tempo anche di pubblico dominio, bensì uno dei “whistleblowers” che ha fatto conoscere al pubblico questi stessi crimini commessi contro i civili afgani. Il condannato in questione è l’avvocato militare David McBride, oggetto di una pesante sentenza per avere sottratto documenti riservati all’esercito australiano e poi condivisi con alcuni giornalisti della rete pubblica ABC.

 

Il materiale della Difesa di cui era venuto in possesso McBride è stato alla base di un’indagine giornalistica su assassinii ingiustificati commessi dai militari australiani in Afghanistan, assieme alle manovre dei loro superiori per occultare l’accaduto. Da queste rivelazioni era scaturita a sua volta un’indagine del governo federale, che aveva portato alla luce almeno 23 episodi classificabili come “crimini di guerra”, tra cui l’uccisione di 39 cittadini afgani. Come si è già intuito, nessuno dei responsabili è stato finora punito dalla giustizia australiana.

Nel processo dello scorso novembre, la Corte Suprema australiana aveva preso alcune decisioni che hanno poi reso inevitabile la condanna di McBride. La richiesta dei suoi legali di appellarsi al diritto di vedere riconosciuto il caso come di “pubblico interesse” era stata respinta. Inoltre, la difesa era stata costretta a consegnare all’ufficio della procura generale i documenti classificati in suo possesso, che avrebbero dovuto essere presentati alla corte in fase di dibattimento per ottenere l’assoluzione di McBride.

Il giudice David Mossop, lo stesso che ha pronunciato il verdetto di condanna martedì, aveva infine respinto il riferimento della difesa ai principi fissati dal processo di Norimberga contro i crimini del nazismo. Cioè che McBride aveva il diritto di rompere il giuramento militare e di trasgredire agli ordini dei superiori, visto che in gioco c’era l’interesse pubblico di conoscere i gravissimi crimini commessi dalle forze armate australiane. Senza un’altra strategia difensiva percorribile, i legali di McBride avevano così consigliato un’ammissione di colpa, confidando in una sentenza lieve. Invece, Mossop ha inflitto una pena di ben 5 anni e 8 mesi, con la possibilità di chiedere la libertà sulla parola solo dopo 2 anni e 3 mesi, ovvero nell’agosto del 2026.

Le dichiarazioni in aula dello stesso giudice rendono bene l’idea dell’importanza del processo a David McBride e della determinazione della giustizia, della politica e dei militari australiani di fare del suo caso un esempio. Mossop è stato chiarissimo in questo senso, in particolare quando ha spiegato come sia “imperativo che altri [potenziali ‘whistleblowers’] vengano scoraggiati dal tenere simili comportamenti”. McBride, secondo il giudice della Corte Suprema australiana, sarebbe “ossessionato dalla correttezza delle sue opinioni”, ma a suo dire chiunque abbia un’attitudine simile deve essere consapevole del fatto che “la violazione dei propri obblighi legali” incontrerà “una punizione esemplare”.

È evidente che il punto di vista del giudice Mossop è quello dell’apparato di potere australiano e ricalca esattamente l’approccio ultra-repressivo e autoritario della giustizia americana e di altri paesi occidentali. Anche la condanna delle azioni di McBride sulla base di una mai dimostrata minaccia alla sicurezza nazionale o al personale militare è un argomento che si ripete puntualmente nelle dichiarazioni di esponenti del governo o nelle aule di tribunale degli Stati Uniti quando a essere sotto accusa sono i “whistleblowers”.

La sorte riservata a David McBride in Australia, anche a questo proposito, ricorda da vicino la vicenda di WikiLeaks e i casi di Julian Assange e Chelsea Manning. Riguardo al primo, tuttora in attesa di una sentenza definitiva sull’estradizione negli USA, il governo dell’Australia, di cui è cittadino, si è apparentemente attivato negli ultimi mesi per chiedere la chiusura del processo e la liberazione immediata.

Il caso McBride dimostra tuttavia come le iniziative a favore di Assange dell’esecutivo laburista di Canberra, guidato dal premier Anthony Albanese, rispondano solo alla necessità di dare un qualche riscontro alle pressioni crescenti tra l’opinione pubblica per mettere fine alla persecuzione del fondatore di WikiLeaks. Al di là delle apparenze e delle scelte di opportunità, la classe politica australiana è invece allineata a quella americana e britannica ed è pronta a punire duramente chiunque intenda rendere pubblici documenti riservati che documentano i loro crimini.

Nel caso di McBride questo approccio risulta chiaro anche da un’altra circostanza. In molti, inclusi alcuni deputati del parlamento federale australiano, avevano invocato un intervento del governo per fermare il processo, in base alle facoltà assegnate al ministro della Giustizia (“Attorney General”) dal “Judiciary Act” del 1903 quando un procedimento “non [sia] di pubblico interesse”.

L’attuale titolare di questo ufficio, il laburista Mark Dreyfus, aveva però declinato le richieste, sostenendo che il potere di intervenire nei procedimenti giudiziari deve essere utilizzato solo “in situazioni eccezionali”. Evidentemente, per i rappresentanti della “democrazia” australiana, la persecuzione e la condanna a una pena pesantissima di un “whistleblower” che ha rivelato crimini di guerra nell’ambito di un’occupazione militare di un paese straniero non rappresentano circostanze sufficientemente “eccezionali”.

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