Georgia tra sovranità e caos pilotato

di Mario Lombardo

La Georgia è al centro di una nuova ondata di proteste e tensioni politiche dopo la decisione del governo di sospendere le trattative per l'adesione all'Unione Europea fino al 2028. La scelta, comunicata lo scorso 28 novembre, ha scatenato violente manifestazioni nella capitale Tbilisi e in altre città. Gruppi di manifestanti, prevalentemente studenti e giovani, hanno eretto barricate e...
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Dazi, salvare il soldato Ryan?

di Fabrizio Casari

Non si è ancora insediato alla Casa Bianca ma Donald Trump ogni giorno comunica e nomina decisioni, mosse e ministri del suo prossimo gabinetto presidenziale. In questi ultimi giorni sono state fatte filtrare le possibili decisioni in merito a dazi doganali e sanzioni contro Cina, Messico, Canada e UE. Trump dice di voler imporre una tassa del 25% su tutti i prodotti che entrano da Canada e Messico e un'ulteriore tariffa del 10 per cento sulle merci provenienti dalla Cina. L’impatto per l’economia statunitense sarebbe importante, visto che gli USA sono il più grande importatore di beni al mondo, con Messico, Cina e Canada come primi tre fornitori. E se per l’Europa i dazi generali potrebbero oscillare tra il 10% al 20%, per Pechino...
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di Michele Paris

La devastazione provocata dal tifone Haiyan nelle Filippine non ha soltanto scatenato una gara di solidarietà tra le popolazioni di molti paesi, ma ha anche consentito ad alcuni governi, interessati a sfruttare l’importanza strategica di questo paese-arcipelago del sud-est asiatico, di provare a rafforzare la propria presenza in un’area del globo contrassegnata da crescenti rivalità. In particolare, il Giappone sta sfruttando la crisi umanitaria nelle Filippine per stabilire una partnership militare con il governo di Manila, mentre gli Stati Uniti ne hanno approfittato per dare un impulso probabilmente decisivo alle trattative in corso da tempo per creare basi militari di fatto permanenti nel vicino meridionale della Cina.

Prima dell’arrivo ai primi di novembre del più potente tifone mai registrato sulla terraferma, i negoziati tra gli USA e il governo del presidente Benigno Aquino su un accordo bilaterale per consentire il posizionamento “a rotazione” di soldati americani nelle Filippine sembravano essersi arenati sulla definizione di alcuni dettagli e, soprattutto, in conseguenza dell’emergere di una certa opposizione interna ad una decisione strategica che rischia di complicare ulteriormente i rapporti già tesi con Pechino.

Due giorni prima che il tifone Haiyan colpisse le Filippine, lo stesso ministro della Difesa, Voltaire Gazmin, aveva riconosciuto pubblicamente lo stallo, affermando che Manila e Washington non erano riusciti ad accordarsi su alcuni punti del trattato, tra cui la responsabilità per il controllo delle nuove basi militari da assegnare agli USA.

Così, subito dopo il passaggio del tifone, il governo americano aveva inizialmente offerto appena 100 mila dollari in aiuti ad un paese in ginocchio. Il successivo 11 novembre, però, da Washington è giunto l’annuncio che il sostegno finanziario a Manila sarebbe salito a 20 milioni di dollari, da recapitare assieme a circa 13 mila soldati trasportati dal gruppo aeronavale di cui fa parte la colossale portaerei USS George Washington.

La successione dei fatti suggerisce dunque che gli Stati Uniti abbiano vincolato il loro impegno a favore delle vittime del tifone alla ripresa delle trattative per l’accordo sulla partnership strategica se non, addirittura, direttamente allo stazionamento delle proprie forze armate in territorio filippino.

A confermare il mutato atteggiamento anche del governo di Manila, il ministro degli Esteri, Alberto del Rosario, qualche giorno fa ha accolto una delegazione di parlamentari americani sottolineando l’importanza dell’accordo sulla presenza militare USA nel suo paese. Il numero uno della diplomazia filippina ha poi aggiunto che “l’assistenza umanitaria e il soccorso in caso di disastri” saranno una parte fondamentale dell’accordo stesso.

Quest’ultima osservazione rivela come le conseguenze del tifone Haiyan siano state utili anche al governo delle Filippine per superare le resistenze interne alla partnership con gli Stati Uniti, avendo fornito l’occasione per mascherare un accordo puramente strategico - e che ha in gran parte a che fare con la rivalità tra Washington e Pechino in Estremo Oriente - dietro la retorica umanitaria.

Meno preoccupato delle apparenze è apparso invece un membro della delegazione proveniente dal Congresso americano. Il deputato repubblicano dell’Arizona, Trent Franks, ha infatti spiegato come le forze armate di USA e Filippine debbano collaborare in maniera più stretta perché i due paesi “hanno in comune potenziali rivali formidabili”, con un chiaro riferimento alla Cina.

I negoziati sull’accordo bilaterale sembravano peraltro vicini alla loro conclusione già lo scorso mese di settembre, quando alcune rivelazioni sul suo contenuto erano apparse sulla stampa. Il trattato dovrebbe cioè prevedere una base di comando USA a Oyster Bay, sull’isola-provincia di Palawan, dove sorgeranno anche altre basi operative ed un sofisticato sistema radar diretto con ogni probabilità verso la Cina.

Gli americani dovrebbero anche tornare a Subic Bay, dove fino a poco più di due decenni fa mantenevano la più grande struttura militare a stelle strisce dell’area Asia-Pacifico, mentre, complessivamente, i soldati da stazionare nelle Filippine “a rotazione” saranno più di 4 mila.

La formula “a rotazione” in riferimento alla presenza militare americana che dovrebbe entrare nell’accordo ufficiale serve ad aggirare il divieto, previsto dalla Costituzione filippina, della creazione di basi militari straniere permanenti sul territorio di questo paese paese.

Anche se l’accordo bilaterale non è stato ancora firmato, i lavori per la costruzione di nuove basi sono comunque già iniziati nelle Filippine, ad esempio proprio a Oyster Bay, una località situata in posizione strategica perché affacciata sul Mar Cinese Meridionale a meno di 200 km dalle Isole Spratly, oggetto di un’aspra contesa territoriale tra Manila e Pechino.

Come già anticipato, gli Stati Uniti già disponevano nel recente passato di imponenti basi militari nella ex colonia asiatica, tra cui, oltre a Subic Bay, a nord di Manila, quella di Clark, sull’isola di Luzon. Queste basi vennero però abbandonate tra il 1991 e il 1992 dopo che il parlamento filippino negò il rinnovo delle concessioni a causa dell’impopolarità della presenza americana.

Il due paesi, i quali avevano siglato un trattato di mutua difesa nel 1951, avrebbero in ogni caso sottoscritto nel 1999 un accordo per consentire nuovamente una certa presenza militare americana nelle Filippine, anche se su base provvisoria.

In concomitanza con la “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama per contenere l’espansionismo cinese, infine, Manila è diventata una pedina fondamentale di questa strategia, così che negli ultimi anni le forze navali statunitense hanno intensificato le loro apparizioni nei porti filippini. Secondo i dati delle autorità locali, ad esempio, a Subic Bay il numero degli attracchi di navi da guerra e sottomarini a stelle e strisce è passato da 51 nel 2010 a 72 soltanto nei primi sei mesi di quest’anno.

L’intensificarsi della cooperazione tra Stati Uniti e Filippine è coincisa anche con l’elezione nel 2010 di Benigno Aquino, protagonista del totale allineamento a Washington del suo paese dopo che la precedente presidente ora finita in disgrazia, Gloria Macapagal-Arroyo, pur mantenendo soprattutto inizialmente i tradizionali legami con gli Stati Uniti, aveva rafforzato in maniera sensibile le relazioni economiche con la Cina.

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