I governi di Stati Uniti e Francia sostengono di essere impegnati in queste ore in una frenetica attività diplomatica per cercare di fermare l’escalation sul fronte libanese tra Hezbollah e Israele. Netanyahu ha però smentito giovedì le voci di una tregua imminente, per poi tornare a incendiare gli animi della popolazione dello stato ebraico, fino ad ora in larga misura favorevole alle operazioni in corso oltre il confine settentrionale. In maniera perfettamente coerente con il copione della propaganda sionista, gli eventi di questi giorni vengono presentati come una dimostrazione di forza da parte di Israele, in grado di dettare i termini della resa o di un accordo di pace al nemico di turno. La realtà dei fatti è tuttavia diversa e gli obiettivi di Tel Aviv, anche se possono apparire a portata di mano, restano molto difficilmente raggiungibili, a Gaza come in Libano.

 

La decisione di spostare l’attenzione su Hezbollah non è, per cominciare, un sintomo di forza di Israele, quanto piuttosto il risultato delle pressioni esplosive accumulate sul governo e le forze armate dopo quasi un anno di guerra contro la popolazione palestinese. La brillante operazione di Hamas del 7 ottobre scorso, la lotta contro le forze di occupazione nella striscia e le iniziative più o meno coordinate contro il regime sionista da parte delle varie componenti della Resistenza hanno infatti prodotto una crisi virtualmente senza precedenti per Israele.

Il fallimento nel piegare Hamas, l’impossibilità di ottenere la liberazione dei prigionieri israeliani, l’allargamento della crisi alla Cisgiordania, il pericolo di incrinare i rapporti con Egitto e Giordania, il possibile naufragio degli Accordi di Abramo e le frustrazioni crescenti delle decine di migliaia di coloni costretti a lasciare le loro abitazioni al confine con il Libano, sono tutti fattori che hanno messo Netanyahu in una posizione delicatissima, costringendolo alla guerra a oltranza nel tentativo di trovare una soluzione a uno scenario senza vie d’uscita.

Nel confronto con Hezbollah, ma non solo, l’elemento chiave è rappresentato dal “deterrente”, che Israele sembra avere perso dopo il 7 ottobre e l’inizio dei bombardamenti dal Libano in appoggio alla resistenza palestinese a Gaza. Il ribaltamento degli equilibri degli ultimi decenni ha gettato nel panico la classe politica, i vertici militari e la popolazione israeliana. Quando le tensioni sono diventate insostenibili, Netanyahu ha così aperto ufficialmente il fronte settentrionale, con l’obiettivo di ristabilire gli equilibri precedenti, secondo i quali è Israele a detenere la superiorità militare e di conseguenza la capacità di scoraggiare attacchi dei propri nemici.

Dal momento che la crisi esplosa dopo il 7 ottobre ha creato difficoltà enormi dal punto di vista economico e sociale allo stato ebraico, oltre a un perenne senso di precarietà, praticamente tutta la società israeliana ha accolto con entusiasmo l’offensiva in Libano. Ciò è perfettamente in linea con i piani di Netanyahu, che cerca di distogliere l’attenzione del paese dal fallimento di Gaza.

L’escalation contro Hezbollah comporta in ogni caso rischi considerevoli ed era stata non a caso più volte rimandata nei mesi scorsi nonostante la crescente intraprendenza del “Partito di Dio” e l’aggravarsi della situazione dei coloni sradicati dalle aree di confine. L’obiettivo ideale di Tel Aviv è con ogni probabilità quello di esercitare le maggiori pressioni possibili su Hezbollah per spingere i vertici del partito/milizia sciita a fare un passo indietro e fermare lo stillicidio di missili sul nord di Israele. In questo modo, la questione dei profughi interni verrebbe risolta e le forze armate sioniste potrebbero tornare a dedicarsi indisturbate al genocidio palestinese.

In sostanza, Netanyahu vorrebbe scindere le crisi di Libano e Gaza, assicurando la stabilità del fronte settentrionale. Hezbollah continua però a sostenere che non ci saranno accordi fino a che non cesseranno le violenze di Israele nella striscia. Il problema per Tel Aviv è che Hezbollah conserva ancora quasi tutte le proprie carte da giocare e lo scenario oggi favorevole a Netanyahu potrebbe ribaltarsi in caso di un conflitto prolungato anche con il Libano.

Israele minaccia ad esempio un’invasione di terra attraverso movimenti di uomini e mezzi, avvertimenti pubblici alla popolazione libanese o addirittura prospettando futuri insediamenti sionisti nel sud del paese dei cedri. Al netto della propaganda, Netanyahu e i vertici militari ritengono tuttavia a dir poco problematica un’opzione di questo genere ed è probabile che, a parte sviluppi eccezionali, non avrà luogo nel breve periodo.

Un attacco di terra in Libano scatenerebbe innanzitutto una reazione massiva da parte di Hezbollah. Israele e la stampa ufficiale in Occidente sostengono che nell’ultima settimana Hezbollah abbia subito perdite devastanti in termini di uomini (comandanti) e armamenti. In realtà, le operazioni israeliane, come di consueto di stampo terroristico, hanno finora causato centinaia o migliaia di vittime in grandissima parte civili, sia pure con qualche importante eccezione, mentre le armi di Hezbollah restano ben nascoste e fuori dalla portata dei bombardamenti tutt’altro che chirurgici delle forze sioniste.

Un’intensificazione dello scontro potrebbe anche avere l’effetto indesiderato di costringere allo sfollamento altri coloni israeliani che risiedono nel nord del paese, senza quindi risolvere la questione dei profughi interni ma anzi aggravandola. Hezbollah potrebbe anche fare ricorso al suo arsenale di missili ben più sofisticati di quelli impiegati finora, colpendo istallazioni strategiche israeliane solitamente al di fuori della portata dei nemici. Questa settimana, il “Partito di Dio” ha dato un assaggio delle proprie potenzialità quando ha lanciato per la prima volta un missile balistico su Tel Aviv, dove intendeva colpire il quartier generale del Mossad.

Tutto questo senza nemmeno considerare le ripercussioni di un eventuale conflitto prolungato con Hezbollah su un’economia israeliana già in gravissimo affanno. Uno scenario ancora più rischioso se si considera che lo scoppio di una guerra totale sul territorio del Libano potrebbe convincere l’Iran e i suoi alleati nella regione ad abbandonare la relativa prudenza di questi mesi e ad agire in modo più deciso nello scontro con lo stato ebraico.

È assodato che nei calcoli di Netanyahu c’è l’auspicio che gli Stati Uniti decidano di intervenire a fianco di Israele nel momento in cui la situazione diventerà insostenibile. L’amministrazione Biden, che condivide in pieno gli obiettivi strategici di Israele, resta però scettica davanti alla prospettiva di una guerra ad alta intensità in Medio Oriente. Ciò perché un impegno maggiore da parte americana comporterebbe un dispendio di risorse che, alla luce della guerra in Ucraina, potrebbero non essere sufficienti e anche per le conseguenze negative che avrebbe sulle prospettive di successo di Kamala Harris nelle elezioni di novembre.

L’arroganza del criminale di guerra Netanyahu e dei suoi complici ai vertici delle forze di occupazione potrebbe portare perciò a un brusco risveglio. Se le perdite che Israele sostiene di avere inflitto a Hezbollah in questi giorni fossero effettivamente tali solo nella realtà della propaganda sionista, l’euforia che sta accompagnando la campagna libanese finirebbe per dissolversi in fretta, lasciando lo stato ebraico e il suo primo ministro in un altro pantano, senza obiettivi raggiungibili né, tanto meno, una exit strategy che garantisca gli equilibri militari precedenti alla guerra in corso.

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