Uno degli effetti collaterali per Israele della guerra di aggressione nella striscia di Gaza è il congelamento del percorso di normalizzazione che Tel Aviv, in collaborazione con Washington, stava intraprendendo con alcuni regimi arabi. L’amministrazione Biden ha cercato in questi mesi di proiettare ottimismo sulla questione, ma il massacro quotidiano dei palestinesi e il ricorso a operazioni oggettivamente terroristiche da parte del regime sionista hanno riaccentuato l’isolamento dello stato ebraico. L’Arabia Saudita è in questo progetto il premio più ambito e, perciò, le dichiarazioni pubbliche rilasciate mercoledì dall’erede al trono e detentore di fatto del potere nel regno, Mohammed bin Salman (MBS), sono state una nuova doccia fredda per Israele e Stati Uniti.

Il figlio del sovrano saudita ha riaffermato che il suo paese non intende stabilire relazioni diplomatiche formali con Israele fino a che non ci sarà una prospettiva concreta per la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale. Il regime saudita, ha ricordato MBS, continuerà ad adoperarsi “strenuamente” per questo obiettivo. Le sue parole sono un messaggio molto chiaro non solo a Netanyahu ma anche al governo americano, che in più occasioni anche dopo l’inizio della guerra in corso aveva prospettato la stipula di un accordo trilaterale nonostante il persistere della crisi palestinese.

La Casa Bianca confidava evidentemente che i leader sauditi privilegiassero i vantaggi concreti derivanti dal progetto, riuscendo a limitare i contraccolpi della violenza israeliana a Gaza. Sul tavolo c’era e c’è infatti, oltre alla possibile intensificazione dei rapporti commerciali e in altri ambiti con Israele, un accordo nell’ambito della “sicurezza” con gli Stati Uniti, ovvero, in primo luogo, l’espansione delle forniture di armi e il lancio di un programma nucleare civile sul territorio del regno.

La normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi e Israele rientra nei cosiddetti Accordi di Abramo promossi dall’amministrazione Trump e finalizzati durante il mandato del presidente repubblicano con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Alla base del progetto, la cui premessa era la marginalizzazione della questione palestinese, c’è appunto il rafforzamento della posizione di Israele in Medio Oriente e, di riflesso, l’indebolimento del fronte della Resistenza. In gioco per Washington c’è anche la competizione con le altre potenze globali – Russia e Cina – che hanno fatto segnare progressi enormi nella regione in questi anni.

È chiaro che è stato l’impatto del genocidio a Gaza a costringere il regime saudita alla prudenza nell’approccio a Israele. L’Arabia Saudita, come altri paesi arabi, continua ad assumere una posizione critica a livello pubblico verso lo stato ebraico, ma dietro le apparenze i rapporti restano invariati e, anzi, Riyadh, assieme ad esempio alla Giordania, consente a Israele di sfruttare le rotte commerciali di terra per aggirare il blocco nel Mar Rosso imposto dal governo yemenita di Ansarallah. Sul fronte domestico, l’opposizione al regime sionista cresce però di giorno in giorno, così da rendere in questo frangente estremamente problematica, se non suicida, un’iniziativa a favore della normalizzazione con Tel Aviv.

Il prolungarsi della guerra a Gaza e, anzi, il possibile allargamento al Libano dopo l’attacco terroristico di martedì e mercoledì implicano così il precipitare dei rapporti tra Israele e i paesi arabi schierati con gli Stati Uniti. Questi paesi vedono in realtà con favore il ridimensionamento dell’Iran e i suoi alleati nella regione, ma almeno due elementi rendono più probabile un atteggiamento quanto meno neutrale in caso di guerra aperta. Il primo è la reazione delle rispettive popolazioni, come già accennato e al contrario dei loro governi su posizioni radicalmente filo-palestinesi. L’altro è la sensazione che l’aggravamento dello scontro e un eventuale conflitto su vasta scala non si debba risolvere necessariamente a favore di Washington e Tel Aviv.

La crisi in corso rappresenta dunque un motivo di seria preoccupazione per l’Arabia Saudita e gli altri regimi del Golfo. L’uscita pubblica sulla necessità di uno stato palestinese da parte di MBS non è un caso isolato. Sempre in questi giorni anche i vertici degli Emirati Arabi hanno espresso inquietudine per la situazione. Lunedì prossimo il presidente emiratino, Sheikh Mohammed bin Zayed, sarà ospite di Biden alla Casa Bianca e su X (ex Twitter) ha anticipato il vertice avvertendo che il suo paese, anche se tuttora disponibile a collaborare con gli USA e il regime occupante nei piani di “ricostruzione” di Gaza, non intende appoggiare nessuna soluzione che non preveda l’istituzione di uno stato palestinese.

Per gli Stati Uniti, queste recenti prese di posizione degli alleati sunniti in Medio Oriente sono ancora più allarmanti perché si sommano a una serie di sviluppi che disegnano il formarsi di nuovi equilibri strategici nella regione. Basti citare, per quanto riguarda l’Arabia Saudita, l’ingresso come “partner di dialogo” nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la fruttuosa collaborazione con Mosca sulle politiche petrolifere nell’ambito del cosiddetto “OPEC+”, il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con l’Iran grazie alla mediazione della Cina e il potenziale passaggio dal dollaro alla valuta cinese nelle esportazioni di greggio verso Pechino.

Non sono comunque solo l’America e Israele ad avere interesse nella normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e Riyadh. Da un eventuale accordo, il regime saudita si aspetta benefici importanti sul fronte della “sicurezza”, ma l’insistenza americana sul fatto che questi ultimi saranno erogati solo dopo l’intesa con Tel Aviv apre scenari rischiosi per Washington. Se, infatti, la formalizzazione di normali rapporti diplomatici tra Israele e Arabia Saudita si allontana per via della guerra a Gaza, è del tutto possibile che quest’ultimo paese guardi altrove per soddisfare le proprie esigenze di “sicurezza”.

In realtà si tratta di un processo già in atto e che però potrebbe subire un’accelerazione in seguito agli eventi in corso. Non è forse un caso che poco più di una settimana prima delle dichiarazioni di MBS su Palestina e rapporti con Israele, lo stesso erede al trono aveva ricevuto a Riyadh il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, con il quale ha discusso appunto di un allargamento della cooperazione tra i due paesi, incluso l’ambito della “sicurezza”. Lo stesso Lavrov aveva inoltre annunciato l’invito ufficiale del leader saudita al summit dei BRICS in programma nella città russa di Kazan dal 22 al 24 ottobre prossimo.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy