I governi di Irlanda, Norvegia e Spagna hanno riconosciuto formalmente martedì lo stato palestinese, con una mossa che potrebbe convincere altri paesi europei a muoversi nella stessa direzione, aumentando così le pressioni su Israele. La decisione non avrà comunque effetti concreti sulla drammatica situazione nella striscia di Gaza. Il regime genocida di Netanyahu continua infatti ad agire in violazione di tutte le norme del diritto internazionale grazie all’irremovibile sostegno dell’amministrazione Biden. L’isolamento internazionale di Tel Aviv inizia però a rappresentare un serio problema per i governi in Occidente, dove in molti temono che la reputazione dello stato ebraico sia irreparabilmente danneggiata, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare sul piano dei loro interessi strategici in Medio Oriente.

 

Il riconoscimento della Palestina come stato a tutti gli effetti è stato definito da Dublino, Madrid e Oslo come un provvedimento necessario, anzi “l’unico”, per arrivare a una soluzione pacifica della crisi. In realtà, già 144 su 193 membri delle Nazioni Unite riconoscono formalmente lo stato palestinese, alcuni da parecchi anni, ma ciò non ha finora contribuito ad avanzare la causa della Palestina. Malta e Slovenia hanno a loro volta fatto sapere che intendono procedere a breve con il riconoscimento, mentre il Regno Unito aveva lasciato intendere in precedenza che avrebbe preso in considerazione l’ipotesi.

Oltre a ragioni specifiche legate alla storia dei singoli paesi, come l’Irlanda e la dominazione inglese, ci sono senza dubbio anche motivi di opportunità politica nella decisione finalizzata nella giornata di martedì e accolta con rabbia da Netanyahu. In particolare, il livello della violenza scatenata da Israele nella striscia sta suscitando una tale repulsione tra l’opinione pubblica di tutto il mondo che alcuni governi anche occidentali ritengono di dovere in qualche modo agire per mostrare un certo impegno a favore del popolo palestinese. Tanto più se la mossa può aiutare in vista delle imminenti elezioni europee, la cui campagna elettorale ha al centro proprio la guerra di aggressione a Gaza.

Anche dal punto di vista simbolico, il rifiuto a considerare il riconoscimento unilaterale della Palestina da parte di potenze come Germania, Francia e, soprattutto, Stati Uniti, resta tuttavia determinante. Per i governi di questi paesi la via d’uscita al conflitto è sempre il negoziato che porti a una soluzione a due stati, vale a dire il ritorno a un processo diplomatico senza prospettive che, nella realtà dei fatti, consente a Israele di continuare a massacrare e a occupare impunemente i territori palestinesi.

Ci sono comunque segnali evidenti, tra cui appunto la decisione di Irlanda, Norvegia e Spagna, che la pazienza nei confronti di Netanyahu sia arrivata a limite anche tra gli alleati dello stato ebraico. Negli Stati Uniti i sintomi di disagio appaiono relativamente trascurabili, per lo meno a livello esteriore, per via del fatto che Israele e la lobby sionista controllano di fatto gran parte del Congresso e dell’apparato politico americano.

In Europa, invece, le frustrazioni emergono ormai alla luce del giorno. Lunedì, una presa di posizione netta è arrivata proprio dal vertice della diplomazia UE, con Josep Borrell che ha criticato duramente il primo ministro israeliano. Tra l’altro, l’ex ministro degli Esteri spagnolo ha definito “inaccettabile” la denuncia del procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Karim Khan, da parte di Netanyahu dopo la richiesta di arresto di quest’ultimo e del suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, per i crimini commessi a Gaza.

Il totale disinteresse israeliano nei confronti delle decisioni emesse dagli organi delle Nazioni Unite minaccia di distruggere letteralmente quello che resta del diritto internazionale, assieme alla credibilità degli autoproclamati difensori della “democrazia” in Occidente. Israele, com’è noto, ha anche ignorato completamente il recente ordine della Corte Internazionale di Giustizia di fermare l’offensiva militare a Rafah.

Le critiche europee si concentrano in ogni caso quasi esclusivamente sul solo Netanyahu e la componente ultra-radicale del suo gabinetto. Praticamente tutto il panorama politico israeliano, per non parlare dei vertici militari, appoggia però di fatto la linea genocida del primo ministro, mentre le differenze tra quest’ultimo e coloro che ne chiedono le dimissioni in Israele sono in larga misura di natura tattica. L’Europa e, più tacitamente, anche la Casa Bianca spingono insomma per mettere da parte Netanyahu e installare alla guida del governo di Tel Aviv una figura meno divisiva che si lasci alle spalle le iniziative più estreme contro i palestinesi e accetti una soluzione che possa prospettare la ripresa della farsa del negoziato per la creazione dei “due stati”.

Il ministro degli Esteri irlandese ha addirittura affermato che in sede UE sono in corso discussioni circa la possibilità di applicare sanzioni contro Israele. Questa dichiarazione dà un’idea del clima che si respira in Europa, anche se l’ipotesi resta piuttosto remota. Vari paesi europei continuano d’altra parte a vendere armi a Israele e, ad esempio, la Germania non ha lasciato intendere finora che ci possano essere ripensamenti al totale appoggio alle atrocità israeliane.

È poi ovviamente la posizione americana a decidere del comportamento di Netanyahu. La copertura garantita dall’amministrazione Biden spinge il regime sionista a spostare sempre più in là i limiti di azione, quasi a dimostrare a tutto il mondo di non essere vincolato da nessuna restrizione imposta dal diritto internazionale. Ogni strage di civili rappresenta una provocazione più grave della precedente e tutte sono rese appunto possibili dalla complicità americana.

Gli eventi di questi giorni ne sono una conferma. In risposta alla richiesta di arresto di Netanyahu e all’ordine della Corte Internazionale di Giustizia, Israele ha bombardato nella serata di domenica un campo profughi a Rafah costruito dall’agenzia ONU per i palestinesi (UNRWA) e designato come “zona di sicurezza”. I morti sono stati più di 50, in gran parte come sempre donne e bambini, molti dei quali bruciati vivi in seguito all’incendio diffusosi nella tendopoli colpita dai missili israeliani forniti dagli Stati Uniti.

Dopo il coro di condanne che ne è seguito, Netanyahu ha tenuto un vergognoso discorso pubblico per spiegare che si è trattato di un “tragico errore” e promettere un’indagine interna che si concluderà in un nulla di fatto o, semplicemente, non avrà nemmeno luogo. La sincerità del primo ministro israeliano è stata chiarita poche ore più tardi, con un nuovo bombardamento martedì di un’altra “zona umanitaria” nei pressi di Rafah, cioè un altro campo di tende che ospita palestinesi in fuga dall’avanzata sionista. Anche in questo caso, le vittime ammontano a svariate decine.

Sempre martedì è stata convocata infine una riunione di emergenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, su richiesta dell’Algeria, per discutere dell’attacco dello stato ebraico a Rafah. Qualsiasi iniziativa finirà comunque per scontrarsi contro il muro americano. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha intanto da parte sua espresso la ferma condanna per il massacro di domenica, chiedendo a Israele di “fermare immediatamente l’orrore e la sofferenza” inflitta alla popolazione palestinese.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy