"La Russia che sta per attaccare l'Europa è una montatura propagandistica. Non occupa uno Stato della NATO. È l'Europa che sta preparando piani per attaccare la Russia". Parole e musica di Vicktor Orban, Presidente dell'Ungheria, membro dell'UE e della NATO. Si può nutrire ogni sorta di sentimento nei confronti di Orban, ma il riarmo contro Russia e Cina è impossibile da confutare.

I 1.26 trilioni di dollari che la NATO spende annualmente in armamenti rappresentano il 62% della spesa militare globale e si stima che l'aumento dall'attuale 2 al 4% del PIL di ogni Paese membro, con l'aggiunta di Svezia, Norvegia e Finlandia, porterà al 74% del totale, con l'Occidente davanti a Russia e Cina con una differenza abissale. Nello specifico dei tre giganti gli USA spendono 877 miliardi di Dollari, la Cina 296 e la Russia circa 90.  Ciò annulla ogni possibile argomentazione sul necessario equilibrio militare: la realtà dei numeri denuda la propaganda.

Il mercato bellico anglosassone è sovraeccitato. Dieci delle maggiori aziende di difesa del mondo hanno ordini per oltre 730 miliardi di dollari. La Germania investirà 100 miliardi di euro in armamenti nei prossimi tre anni con un chiaro orientamento russofobico e il Giappone ha avviato il più grande processo di riarmo della sua storia in evidente funzione anticinese.

 

Di questa corsa al riarmo i produttori statunitensi sono i principali beneficiari: più 17% delle esportazioni totali e la domanda sta superando la capacità di offerta. Per Lockheed Martin e Rtx - tra i maggiori produttori statunitensi di armi, tra cui i Javelin, gli Himar e i Patriot (in teoria vitali ma resi inutili dai russi nel conflitto in Ucraina) rincorrono la domanda ma ci vorranno quattro anni per raddoppiare la produzione. La francese Nexter annuncia che la produzione di sistemi di artiglieria Caesar, che Parigi fornisce all'Ucraina, è aumentata da due a sei al mese, con tempi di consegna dimezzati a 15 mesi.

Il rumore del ferro e del piombo coinvolge tutti, anche chi di giorno profetizza pace e diritti e di notte costruisce armi e operazioni di regime change. La svedese Saab si è espansa in India e punta agli USA, la norvegese Kongsberg sta costruendo una seconda fabbrica di missili d'attacco navali.

E se il conflitto in Ucraina ha reso noto al mondo che la superiorità tecnologica dei sistemi militari occidentali fosse in buona parte un copione hollywoodiano, coloro che percepiscono tale superiorità come una minaccia prendono le necessarie contromisure.

A Mosca l’industria bellica funziona h24 e sono previsti 520.000 nuovi posti di lavoro nel complesso militare-industriale, che oggi impiega circa 3,5 milioni di russi, il 2,5% della popolazione. Il modello di sviluppo promesso da Putin prevede non solo la fine di ogni dipendenza dalle economie occidentali e la crescita del polo tecnologico civile, ma anche la capacità di deterrenza convenzionale e nucleare con cui garantire integrità e indipendenza della Russia, minacciata dalla follia espansionista della NATO.

La Cina, dal canto suo, consapevole di essere l’obiettivo finale dell'impero USA, che vorrebbe indebolirne l'alleanza con Mosca così da isolare e colpire in due tempi e singolarmente i due giganti eurasiatici, offre una nuova fase della sua capacità di difesa: riduce fortemente il peso del Dollaro nelle sue riserve, annuncia sanzioni per chi la sanziona e mostra a Washington come attaccarla sarebbe l'ultimo errore della storia statunitense.

 

Verso dove stiamo andando?

Siamo nel bel mezzo della sovrapposizione dell'economia di guerra con l'economia finanziaria da parte dell'Occidente collettivo, nella più grande riconversione industriale mai immaginata. La risposta alla crisi sociale e valoriale del sistema liberale, incapace di sostenere un modello ormai sconfitto, è un colossale reset del sistema politico occidentale a trazione bellica, considerato necessario per arginare il deficit di credibilità ed affidabilità che riduce l’influenza della sua leadership politica e militare.

Il folle aumento delle spese militari conferma quanto l'impero unipolare sia consapevole di come il suo dominio sia messo fortemente in discussione dall'emergere di potenze globali e regionali che non sono più disposte a contenere la propria crescita in un quadro di sviluppo limitato e di irrilevante protagonismo politico. Il tutto in un quadro obbligato, con un ruolo stabilito senza appello dall'Occidente collettivo. Il quale non accetta l’idea di una governance misurata su parametri oggettivi - peso economico, estensione geografica, indice demografico, possesso di terre rare, capacità militare, stabilità sistemica e influenza politica - da ridefinirsi in un quadro di sicurezza reciproca.

In gioco ci sono il controllo totale del mercato finanziario e monetario, la circolazione delle merci e delle persone, l'organizzazione del mercato del lavoro e lo sfruttamento delle risorse di mare, suolo e sottosuolo. La crescita delle economie emergenti e non allineate, resa possibile anche dai modelli di globalizzazione che l'Occidente aveva inventato per sostenere la sua egemonia ai quattro angoli del pianeta, conferma la più classica delle previsioni marxiane: il capitale, insieme al suo potere, crea anche i suoi becchini.

Emerge la sconfitta di un modello di governance planetaria incentrato sul dominio assoluto di 52 Paesi sugli altri 142. Si è affermata l'idea che solo lo schiacciamento della concorrenza può salvare il dominio planetario. Ma la postura violenta di un ordine imperiale assolutista ha convinto le economie emergenti, riunite nei BRICS e in altri organismi regionali di alto livello (come la SCO), dell'impraticabilità di un accordo per ridefinire gli equilibri planetari.

Alle richieste dei paesi emergenti di una maggiore rappresentanza e gestione della governance planetaria, infatti, la risposta collettiva dell'Occidente è un NO assoluto. NO a equilibri diversi da quelli già dominanti e, anzi, destabilizzazione interna dei Paesi non allineati; minacce militari ai loro confini; dispute su territori e risorse fuori da ogni logica; sfregio costante del diritto internazionale; uso spregiudicato degli organismi finanziari, giuridici e commerciali; politiche sanzionatorie (che colpiscono il 73% della popolazione) e uso militare del Dollaro per colpire i prodotti e il libero scambio nei mercati, al fine di ipotecare le economie concorrenti di USA e UE e consentire con la forza la supremazia dei prodotti occidentali.

Sul terreno, però, la realtà offre immagini di un impero globalista sempre più in arretramento economico, finanziario, tecnologico e militare, da cui deriva una costante perdita di influenza politica. L'idea dell’uso della forza per coprire le fragilità politiche ed economiche non funziona: le sconfitte subite in Afghanistan e in Siria, l'incapacità di gestire Iraq e Libia, la sconfitta in Ucraina, dove 52 Paesi partecipano alla guerra contro la Russia ottenendo solo l'avanzata di Mosca sul terreno, rappresentano l'ultima pagina della globalizzazione unilaterale iniziata nel 1989.

 

Burro o cannoni?

L'aumento della spesa militare ha come ovvia conseguenza la contrazione della spesa sociale. E? il fallimento di qualsiasi politica di inclusione ed equilibrio nel centro dell'impero, non più solo nella periferia. In Italia, una delle otto economie più ricche del mondo, quasi il 30% della popolazione rinuncia all'assistenza sanitaria per mancanza di risorse. L'Unione Europea nel suo complesso conta 107 milioni di poveri (un europeo su cinque) e gli Stati Uniti devono fare i conti con oltre 40 milioni di cittadini che vivono al di sotto del livello minimo di sussistenza (un americano su cinque). Un fallimento sistemico per il mondo, una cuccagna per le élites.

Al sistema imperiale sembra avanzi gente: nell'apoteosi del modello capitalistico guidato dal liberismo, infatti, solo le élite dei vari Paesi sono destinatarie di risorse e libertà. La manipolazione mediatica ottiene un successo limitato: non riesce a nascondere completamente il fallimento a livello socio-economico (annunciava maggiore inclusione e ricchezza per tutti) e di governance (proponeva una democrazia esportata a livello globale) e la credibilità valoriale, seppellita sotto guerre asimmetriche e disprezzo della verità.

La corsa agli armamenti allerta a nuove guerre e disegna la catastrofe di un sistema che è ormai costretto ad accelerare la possibile fine della specie umana per non vedere crollare definitivamente il suo modello di dominio.

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