Con il genocidio palestinese in corso da quasi cinque mesi, la gravissima crisi nella striscia di Gaza e i crimini di Israele sono al centro della campagna elettorale anche negli Stati Uniti. L’opposizione alle politiche di totale complicità dell’amministrazione Biden si sta rapidamente allargando, fino a includere un certo numero di membri del Congresso, in buona parte riconducibili all’ala “progressista” del Partito Democratico. Quest’ultima fazione non avrà però vita facile alle urne, nonostante il largo consenso che trova tra gli elettori la causa palestinese.

 

Contro i candidati che intendono assumere un’attitudine anche moderatamente critica dello stato ebraico si scaglierà infatti la vera e propria macchina da guerra della lobby sionista AIPAC (“American Israel Public Affairs Committee”), pronta a spendere una cifra vicina ai 100 milioni di dollari per affondare gli aspiranti alle cariche elettive non sufficientemente asserviti agli interessi israeliani.

Un recente articolo pubblicato dalla testata on-line Politico ha fatto luce sulla strategia di AIPAC in questa tornata elettorale. Il gruppo di pressione filo-israeliano si è già messo in azione per le primarie e tra i suoi obiettivi principali c’è la promozione di candidati favorevoli a Israele in competizioni del Partito Democratico dove sono impegnati deputati o aspiranti tali che hanno espresso una qualche condanna nei confronti dei massacri commessi dal regime di Netanyahu.

Il bersaglio più logico di questa campagna è il gruppo di deputate e deputati del Partito Democratico considerati più a sinistra, cioè la cosiddetta “Squad”, che comprende l’unico membro del Congresso di origine palestinese, la deputata del Michigan Rachida Tlaib. Politico spiega in ogni caso che nel mirino di AIPAC ci sono almeno tra le 15 e le 20 elezioni primarie per la Camera dei Rappresentanti, riguardanti sia il Partito Democratico sia quello Repubblicano, anche se svariati altri distretti elettorali vengono monitorati in vista di un possibile intervento.

La stessa Tlaib è però molto ben finanziata, proprio grazie alla popolarità delle sue posizioni in uno stato, come il Michigan, dove risiede una consistente minoranza di arabi e musulmani americani. La deputata democratica ha infatti a sua volta incassato cifre da record per la sua campagna elettorale, toccando i 3,7 milioni di dollari nell’ultimo trimestre del 2023. Proprio in Michigan, le primarie presidenziali della settimana scorsa avevano segnato il successo di un’iniziativa di protesta contro le politiche filo-israeliane della Casa Bianca. I promotori avevano invitato gli elettori a non votare Biden, ma a scrivere “non schierato” (“uncommitted”) sulle schede. L’obiettivo era di arrivare a quota diecimila, ma la cifra finale è stata addirittura superiore a 100 mila.

Lo strumento di AIPAC per distribuire finanziamenti ai candidati che intende sostenere o per orchestrare campagne contro quelli osteggiati è la “Super PAC” United Democracy Project, dotata, secondo i dati di fine 2023, di 41 milioni di dollari, ovvero una cifra quasi doppia rispetto a quella sborsata durante tutto il ciclo elettorale del 2022. L’aggressività con cui AIPAC mostra di volere intervenire nelle dinamiche politiche americane ha spinto altri attori riconducibili alla galassia ebraica a desistere dai loro sforzi. È il caso ad esempio della lobby israeliana progressista J Street, che due anni fa aveva cercato di “difendere” un certo numero di candidati democratici presi di mira dalla campagna di AIPAC.

Il flusso di denaro verso le casse di AIPAC è aumentato con l’inizio della guerra seguita all’operazione di Hamas del 7 ottobre scorso. Le ripetute stragi di donne e bambini palestinesi hanno reso d’altra parte necessario un maggiore impegno finanziario per contrastare con la propaganda il crescente disgusto nei confronti di Israele. Spesso, denunciano i critici della lobby sionista, il denaro impiegato in campagne per screditare candidati democratici progressisti proviene da finanziatori tradizionalmente legati al Partito Repubblicano.

I precedenti indicano un maggiore grado di successo nel battere candidati sgraditi quando in corsa non ci sono deputati in carica che cercano la rielezione, cioè nelle cosiddette “open primaries”. Nel 2022, l’unico deputato in carica sconfitto tra quelli nella lista nera di AIPAC era stato Andy Levin (Michigan). Quest’ultimo è stato intervistato da Politico per l’articolo già citato e ha tra l’altro avvertito che la maggior parte dei candidati che devono far fronte all’offensiva di AIPAC “non sarà in grado di sopravvivere” a una campagna così ben finanziata.

La più famosa e influente lobby sionista negli Stati Uniti non opera soltanto per la promozione degli interessi di Israele e per garantire che le decisioni prese a Washington siano costantemente allineate a questi ultimi, ma in maniera sempre più esplicita a favore della destra israeliana. In particolare, AIPAC agisce da vera e propria arma di pressione per Netanyahu e il Likud. Un lungo articolo su questa organizzazione del giornale israeliano Haaretz ha spiegato recentemente che, fin dalla sua fondazione nel 1953 col nome di American Zionist Committee for Public Affairs, AIPAC aveva promosso le politiche dei governi di Israele indifferentemente dagli schieramenti politici che li guidavano. A partire dagli anni Ottanta, invece, la tendenza ad allinearsi ideologicamente con la destra radicale è diventata più evidente. Un processo consolidatosi con l’arrivo al potere di Netanyahu.

Questa attitudine è evidente nel caso del candidato democratico a un seggio alla Camera dei Rappresentanti di Washington per la California, Dave Min, contro il quale AIPAC ha già speso in spot televisivi e materiale elettorale una cifra superiore ai 4,5 milioni di dollari. Ciò che appare a prima vista curioso è che la campagna contro Min non solleva questioni legate a Israele, anche perché quest’ultimo non ha finora espresso giudizi particolari sulla guerra nella striscia né ha tantomeno chiesto una tregua. Min è addirittura sostenuto ufficialmente dalla maggioranza dei deputati ebrei al parlamento legislativo statale della California. AIPAC ha piuttosto riportato alla luce l’arresto di Min nel maggio dell’anno scorso per guida in stato di ebbrezza. Secondo il candidato democratico, la ragione principale degli attacchi nei suoi confronti sarebbero alcune critiche da lui espresse privatamente verso il premier israeliano.

AIPAC sfugge incredibilmente alla legge americana (“FARA”) che impone a soggetti ed entità che operano come fa appunto la lobby sionista la registrazione come agente di un governo straniero, nonché l’obbligo di rendere pubbliche tutte le proprie attività. Essendo finanziata da privati e registrata come organizzazione “no profit”, AIPAC sostiene invece di non rappresentare direttamente un governo estero e può quindi sottrarsi alle restrizioni del “FARA”. Tra i suoi donatori figurano le personalità più influenti della comunità ebraica in America, ma anche sostenitori non ebrei di Israele. AIPAC dispone di oltre venti uffici regionali in tutti gli Stati Uniti  e impiega più di 300 dipendenti in pianta stabile.

Almeno fino a qualche anno fa, la tattica preferita era di natura essenzialmente “bipartisan”, utilizzando la propria influenza sia a favore dei democratici che dei repubblicani. Più recentemente, la tendenza ad avvicinarsi maggiormente al Partito Repubblicano appare sempre più chiara, sia pure con importanti eccezioni. La stipula da parte di Obama dell’accordo sul nucleare iraniano nel 2015 (JCPOA) e l’approdo di Trump alla Casa Bianca hanno rappresentato i due fattori più importanti per favorire questa dinamica.

Le conferenze annuali di AIPAC sono comunque sempre frequentate da moltissimi politici di entrambi gli schieramenti, che fanno a gara nel prostrarsi davanti ai sostenitori di un governo straniero in cambio di appoggio e finanziamenti elettorali o, spesso, per evitare di diventare il bersaglio delle campagne intimidatorie della lobby. Per dare l’idea dell’influenza di AIPAC sulla politica americana si possono citare le parole dell’ex deputato democratico David Price in un’intervista a Haaretz del 2021. “Fino a poco tempo fa”, raccontava Price, i membri del Congresso del suo partito, inclusi i leader, all’ordine di AIPAC di “saltare, rispondevano: Quanto in alto?”.

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