Il totale fallimento del progetto ucraino non sembra avere influito minimamente sulle scelte di politica estera degli Stati Uniti, visto che uno scenario simile a quello dell’ex repubblica sovietica continua a essere promosso dall’amministrazione Biden sull’isola di Taiwan. L’ultima della lunga serie di provocazioni di questi anni è avvenuta nei giorni scorsi con la visita a Taipei di una delegazione “bipartisan” di deputati del Congresso di Washington, in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente taiwanese favorevole all’indipendenza, William Lai Ching-te.

Anche a Taiwan sembrano tuttavia aumentare le più che legittime preoccupazioni per il percorso distruttivo che il governo del Partito Democratico Progressista (DPP) sta seguendo.  Sempre più, i leader di quest’ultimo assecondano la promozione delle tendenze separatiste, attraverso la messa in discussione della politica di “una sola Cina”, riconosciuta formalmente anche da Washington e che nega appunto l’esistenza di una nazione o entità statale indipendente – o potenzialmente tale – a Taiwan. Ciò avviene con l’intensificazione delle relazioni diplomatiche, ma anche con il continuo invio di armi a Taipei e il dispiegamento di militari americani sull’isola.

 

I politici americani arrivati a Taiwan questa settimana erano guidati dal presidente della commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano Michael McCaul. Le sue dichiarazioni pubbliche hanno seguito il discorso di inaugurazione del presidente Lai, che era apparso incoraggiare le aspirazioni indipendentiste, innescando inevitabilmente la ferma reazione di Pechino. La Cina aveva infatti subito lanciato una massiccia esercitazione militare nello stretto di Taiwan, oltre a mettere in guardia dalla promozione di soluzioni inaccettabili.

McCaul, da parte sua, non ha fatto nulla per gettare acqua sul fuoco. Anzi, il deputato del Texas ha infiammato ancora di più gli animi delle parti coinvolte, per poi ribaltare totalmente la realtà dello stato delle relazioni tra Pechino, Taipei e Washington. A suo dire, l’iniziativa che più di ogni altra contribuisce ad avvicinare il rischio di una guerra, ovvero il trasferimento di armi a Taiwan, sarebbe precisamente il fattore che agisce da “deterrente” nei confronti di una possibile invasione cinese e ha promesso quindi di adoperarsi per fare in modo che il governo dell’isola disponga di quanto necessario a questo scopo. La recente approvazione di un pacchetto di “aiuti” militari da 95 miliardi complessivi da distribuire all’estero, voluto dalla Casa Bianca, includeva peraltro già 8 miliardi a favore di Taiwan.

Non sorprende, alla luce del clima creato dagli USA, che il governo di Pechino sia tornato ad alzare la voce e a mettere in guardia Washington e Taipei dai pericoli che attendono entrambi e l’intera regione se non ci sarà un’inversione di rotta. La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha condannato per l’ennesima volta le relazioni in ambito militare tra Stati Uniti e Taiwan, così come la vendita di armi dai primi al secondo. Per chiarire ulteriormente il concetto, la portavoce ha ricordato che Pechino “adotterà tutte le misure necessarie per difendere sovranità nazionale e integrità territoriale”. La questione di Taiwan, ha concluso Mao Ning, è nientemeno che cruciale per gli interessi della Cina, ovvero “la prima linea rossa che non può essere oltrepassata nelle relazioni tra Washington e Pechino”.

Il DPP è un partito che tradizionalmente nutre aspirazioni indipendentiste e l’avvicendamento alla presidenza tra Tsai Ing-wen e William Lai Ching-te sta confermando precocemente che le spinte nazionaliste sull’isola verranno favorite ancora di più nei prossimi quattro anni. Questa sezione della classe dirigente taiwanese sta però scommettendo su un gioco estremamente pericoloso e l’esperienza ucraina dovrebbe suggerire maggiore prudenza.

In maniera singolare, nel suo discorso inaugurale del 20 maggio, il neo-presidente Lai ha collegato l’orientamento filo-americano in politica estera allo sviluppo economico dell’isola. In particolare, il leader del DPP ha citato i settori principali dell’economia locale, quello dell’intelligenza artificiale e dei semiconduttori (microchip), il cui avanzamento in termini di investimenti e di progresso tecnologico dipenderebbe dal rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti e gli altri “paesi democratici”. Questo argomento è però quanto meno dubbio. Washington è nel pieno di un’offensiva commerciale fatta di misure protezioniste, principalmente contro la Cina, che, in ultima analisi, faranno poco o nulla per promuovere lo sviluppo industriale in uno scenario di blocchi contrapposti. La Cina è poi il principale mercato delle esportazioni di Taiwan, quasi la metà delle quali è diretta verso la madrepatria.

Oltretutto, c’è un altro particolare che né il presidente Lai né tantomeno la delegazione di deputati americani a Taipei hanno ritenuto di dover ricordare. Entrambe le parti hanno giustamente citato le capacità produttive di microchip taiwanesi, di fatto all’avanguardia mondiale, come elemento economico-strategico decisivo nella competizione globale dei prossimi anni. Tuttavia, poco più di un anno fa, un ex consigliere per la Sicurezza Nazionale USA aveva affermato in un’intervista che, in presenza di una minaccia concreta di invasione cinese dell’isola, risultato delle stesse provocazioni statunitensi, le forze armate americane procederebbero con la distruzione dell’industria di semiconduttori di Taiwan per evitare che finisca sotto il controllo di Pechino.

Si tratta evidentemente di un’ammissione che conferma come per Washington, dietro alla retorica di democrazia e libertà in opposizione all’autoritarismo cinese, Taiwan sia solo una pedina da sacrificare nel quadro della strategia di accerchiamento e indebolimento della Cina. Le conseguenze catastrofiche che le iniziative americane rischiano di produrre per l’isola e i suoi abitanti sono perciò solo danni collaterali del tutto accettabili, esattamente come sta accadendo da oltre due anni in Ucraina.

Parte integrante di questa strategia è la campagna di disinformazione sullo status di Taiwan. Governi e organi di stampa ufficiali in Occidente continuano a parlare della crisi lungo lo stretto di Taiwan come uno scontro tra uno stato più o meno indipendente democratico e una potenza brutale che intende sottometterlo con la forza. Al contrario, che Cina e Taiwan siano una sola entità è un fatto riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei paesi, inclusi gli stessi Stati Uniti. Le due parti riconoscono l’esistenza di “una sola Cina”, mentre divergono su quale delle due sia il legittimo rappresentante, ma, prima dell’inizio dell’escalation di provocazioni americane, lo status quo aveva garantito relazioni bilaterali pacifiche e fruttuose dal punto di vista economico.

Come accennato all’inizio, le posizioni del DPP e le manovre degli USA non esauriscono la realtà di Taiwan. Nel panorama politico dell’isola, il partito del Kuomintang (KMT) promuove tradizionalmente rapporti più distesi con Pechino e nelle ultime elezioni dello scorso gennaio, pur non essendo riuscito a riconquistare la presidenza, assieme ai quasi-alleati del Partito Popolare di Taiwan (TPP) ha ottenuto la maggioranza in parlamento.

All’indomani dell’inaugurazione del mandato del presidente Lai, i due partiti hanno approvato una nuova legge che punta a limitare o, per meglio dire, a mettere una serie di vincoli ai poteri del presidente. Il provvedimento è stato fortemente contestato dal DPP e dai suoi sostenitori in una serie di manifestazioni di protesta, perché introduce alcuni meccanismi di controllo e supervisione sull’operato del presidente. Tra questi figurano l’obbligo di sottoporre regolari rapporti al parlamento e di rispondere alle interrogazioni dei deputati, così come viene stabilita la facoltà di questi ultimi di chiedere la condivisione di informazioni sulle attività di militari e personale di governo. Inoltre, la nuova legge prevede il reato punibile penalmente di “oltraggio al parlamento” in caso non ci sia riscontro alle richieste dei deputati.

L’approvazione della legge è sfociata in una vera e propria rissa in parlamento. In parallelo si sono mobilitati gli ambienti vicini al DPP per denunciare un provvedimento che potrebbe essere incostituzionale, dal momento che, limitando la libertà d’azione del presidente, violerebbe il principio della separazione dei poteri. La testata Nikkei Asia ha invece puntato sulle implicazioni per la sicurezza dell’isola. In un clima segnato dalla crescente minaccia cinese, i vincoli appena licenziati dal parlamento rischierebbero di “compromettere le facoltà dell’amministrazione del presidente Lai di approntare le riforme necessarie relativamente alla sicurezza e alla difesa” dell’isola.

Tradotto: il DPP e gli Stati Uniti temono che i freni posti dal parlamento di Taipei al presidente riducano la possibilità di azione di quest’ultimo nell’ambito dell’escalation anticinese promossa da Washington. Al di là delle controversie “costituzionali”, la misura voluta dal KMT sembra legittima e del tutto comprensibile, oltre a non essere controversa né antidemocratica per via del fatto che aumenta i poteri di sorveglianza dell’organo legislativo su quello esecutivo. La legge è in definitiva la risposta di quella parte della classe politica taiwanese che privilegia la normalizzazione dei rapporti con Pechino alla corsa verso l’abisso fomentata dagli USA.

Le critiche che sollevano il rischio democratico per Taipei mancano anche di ricordare come il Kuomintang e il Partito Popolare di Taiwan detengano la maggioranza in parlamento grazie in primo luogo ai consensi ottenuti proprio da un approccio meno provocatorio nei confronti della Cina. Inoltre, il successo nelle presidenziali di William Lai era stato favorito dal mancato accordo alla viglia del voto tra il KMT e il TPP per presentare un unico candidato che veniva dato nettamente favorito nei sondaggi. Questa spaccatura aveva consegnato di fatto la presidenza al DPP, visto anche che la legge elettorale di Taiwan non prevede un secondo turno di ballottaggio, ma assegna direttamente la vittoria al candidato con la maggioranza relativa dei consensi.

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