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di Mariavittoria Orsolato
Il 2010 si chiude in positivo per la grande famiglia allargata Berlusconi. Superati gli ostacoli politici di papi, ora tocca al giovane Pierfiglio lustrare compiaciuto il blasone della casata di Arcore. E’ di qualche giorno fa, infatti, la notizia che il gruppo Mediaset ha acquisito il primato anche nella penisola iberica, aggiudicandosi la rete La Cuatro e una buona fetta della pay tv Digital Plus. Il gruppo spagnolo Prisa ha firmato l'accordo di vendita del canale Cuatro al concorrente Telecinco (gruppo Mediaset) e del 44% di Digital+ alla stessa Telecinco e a Telefonica.
L’operazione è stata perfezionata dopo che il network iberico Prisa, sull’orlo del dissesto finanziario e disperatamente bisognoso di liquidi, aveva annunciato la sua disponibilità a liquidare due delle sue emittenti. Mediaset con la sua Telecinco si è subito dichiarata disponibile a investire nella penisola iberica e, con l’aiuto di Mediobanca e di JP Morgan, è riuscita a concludere l’affare in meno di un anno, riuscendo a replicare con successo il testato sistema italiano.
Da oltre un anno la versione spagnola di Canale5 - la Telecinco acquisita vent’anni or sono e famosa ormai per esportare il meglio del peggio del trash nostrano - faceva la posta ai due canali spagnoli, agonizzanti a causa del crollo del mercato pubblicitario; poi l’aumento di 500 milioni del capitale della controllata spagnola ha dato il via libera all’acquisizione ed ora Mediaset diventa a tutti gli effetti il primo polo televisivo privato della Spagna.
Con la recente acquisizione, che la pone al primo posto nell'offerta televisiva iberica, Mediaset è infatti riuscita a ricreare in tutto e per tutto il modello monopolista imposto nella nostra penisola, con un unico network privato superiore per numero di reti e conseguente peso nel mercato della raccolta pubblicitaria. Proprio la raccolta pubblicitaria sta alla base dei problemi affrontati dal gruppo iberico Prisa e dal mondo televisivo spagnolo in generale. Mentre nel 2008 il premier Zapatero promulgava una legge per il proliferare delle emittenti televisive, la crisi economica andava ad azzoppare in modo grave il mercato nazionale, con il risultato che i nuovi canali partivano già in deficit.
Costrette a sgomitare per un’esigua fetta della torta pubblicitaria bacata dallo scoppio delle bolle finanziarie americane, le emittenti iberiche sono state obbligate a pensare alle cessioni e alle fusioni. In questo contesto Mediaset, presente in Spagna dal 1990, è sembrata uno degli interlocutori più interessanti. L'operazione, annunciata un anno fa e passata al vaglio dell'Antitrust spagnola, è costata complessivamente oltre un miliardo di euro. Per il gruppo televisivo nostrano guidato da Pier Silvio Berlusconi l’esborso ammonta a 500 milioni di euro, mentre il restante capitale è andato in azioni Telecinco.
Un successo per la scuderia Mediaset, che già pensa ad un restyling delle emittenti, a partire dal nome: “Abbiamo intenzione, e lo vedremo con gli altri soci nei prossimi mesi, di cambiare il nome e farla diventare Mediaset.es che vuol dire Mediaset Spagna, ha detto il presidente-figlio del gruppo di Cologno Monzese. In questo modo la società sarà riconoscibile in maniera maggiore e più ricollegabile al nostro gruppo anche attraverso il nome”.
Oltre all’innegabile aspetto finanziario (e politico) dell’acquisizione, ci si potrebbe leggere in chiave maliziosa anche una piccola rivincita, se si pensa che Prisa é, tra le altre sue attività, editore del quotidiano El Pais, noto alle cronache italiane anche per aver arditamente pubblicato le foto dei festini hard a villa Certosa, scattate in modo del tutto legittimo dal fotografo Antonello Zappadu e mai però pubblicate integralmente in Italia.
La Cuatro non era però l’unico canale a rischio crack, anche la sorella La Sexta si trova ora sul mercato alla disperata ricerca di salvifiche iniezioni di capitale. A quanto affermano i quotidiani finanziari nostrani e spagnoli, anche in questo caso la manna potrebbe arrivare dall’Italia: l’emittente Antenna 3, di proprietà della joint-venture italo-iberica Planeta-De Agostini, sarebbe infatti interessata ad assorbire La Sexta.
Se le ipotesi dei giornalisti finanziari dovessero tradursi in realtà, nella penisola iberica si verrebbe magicamente a creare di uno scontro di contenuti tutto italiano, pur non ravvisandosi la situazione di duopolio congenita da ormai trent’anni al sistema televisivo italiano. Per fortuna degli spagnoli, peraltro, Berlusconi non potrà mai candidarsi alla Moncloa.
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di Rosa Ana De Santis
Nel 2005, in una veste romantica e romanzata secondo alcuni, i protagonisti della delinquenza romana degli anni Ottanta spopolavano già nelle sale. La regia di Placido, il bellissimo Rossi Stuart nei panni di Freddo, Favino in quelli di Libano e un cast vincente, portano a Romanzo Criminale ben 8 David di Donatello e 5 nastri d’argento.Una pagina di cronaca e di storia fatta di legami casuali e fortissimi tra servizi segreti, bassa manodopera della delinquenza, conflitti politici e chiese diventate sepolture di assassini, ha conquistato gli italiani. Sarà per quel valore catartico che il cinema assume quando racconta il male e i mostri che la storia umana ha generato?
E’ quel sentimento, a metà tra la purificazione e l’esorcizzazione del male che proviamo quando vediamo i film sulle guerre, sugli stermini, sul male assoluto del nazismo. A metà tra macabro interesse, catarsi ed esercizio di memoria, questo è il cinema che piace immediatamente, che serve alla storia e che fa informazione.
Sulla Banda della Magliana, avevamo avuto già una fiction nel 2004 e un altro film. Poi sono arrivate le due serie di Romanzo Criminale che hanno incollato alla tv di Sky milioni d’italiani. Un successo che alla prima messa in onda ha visto ben 400 mila spettatori di media e che ha quindi convinto a produrre la seconda serie. Delinquenti, spacciatori e assassini comuni sono diventati né più né meno che i protagonisti di una soap, che è un’opera come tante, semplicemente un po’ spinta, un po’ noir e molto vera. Quanto basta per rendere tutto più attraente nella stagione in cui va di moda il reality.
Se il film è una creazione artistica per ricordare, per capire o per conoscere (anche se in una veste drammatizzata e non semplicemente cronachistica) la fiction a puntate normalizza, banalizza e azzera ogni parabola di attesa e di suspance. Ogni ipotesi di catarsi decade. In cambio, l’icona del male diventa un personaggio cui ci si affeziona, che ci rimanda alla prossima puntata e che, nel suo chiaro ed elementare profilo psicologico, diventa sempre più familiare.
Se il film è un momento, la serie televisiva reitera azione e personaggi, frammenta la storia, non aggiunge nulla né alla verità né all’interpretazione critica e serve solo all’intrattenimento. Ma a cosa giova questo genere d’intrattenimento? Forse a rendere abituali e più umani killer spietati come Freddo, Dandy, il Bufalo? O a far sembrare meno mostruosa la loro banalità del male? Piace e basta, forse questo dato é sufficiente, senza andare oltre.
Come se non bastasse, a fine puntata arriva l’intervista ai veri banditi sopravvissuti. Che ricordano e raccontano con quel pesante accento romano le loro vite sprecate. Sembrano, ancora oggi e dopo tanto tempo, disperati usciti dai libri di Pasolini, senza traccia di struggente pentimento. Mercenari del male, senza riscatto. Almeno così raccontano il passato, senza incrinature emotive.
L’idea non é che la televisione debba essere necessariamente pedagogica o che il male vada tacitato con i lustrini del varietà, ma che ci sia un linguaggio per ogni tipo di racconto. La cronaca può essere raccontata con una poesia, ma non lo diventa mai. Il dolore raccontato in una risata diventa grottesco o sadico e l’umorismo di Pirandello, l’arte di saper raccontare un fatto mostrando il senso del suo doloroso contrario, è un esempio di raffinato capovolgimento di genere che non è virtù da piccolo schermo. Nel caso della fiction a puntate, peraltro, non c’é rovesciamento di personaggi e azione, ma l’ambizione di rendicontare minuziosamente i fatti. Eccolo qui l’inganno.
La fiction televisiva, nella presunzione di realtà, normalizza il male e alza l’asticella della reazione al senso del male cui si è abituati. E’ proprio il metodo delle puntate e il criterio della durata, che vince su quello del momento, ad agevolare questa contaminazione insidiosa. Per questo il dramma di una storia come quella della banda forse non deve diventare una serie a puntate. Soprattutto se piace molto e soprattutto se corre il rischio di rendere il male un po’ meno assoluto e i protagonisti un po’ meno bestiali.
Il rigoroso rispetto delle regole e dei registri narrativi ci aiuterà a saper riconoscere la verità, a saperla ricordare come si deve e forse - e non è poco - a scongiurare patologici innamoramenti e contagiose emulazioni. Il male per il gusto del male è un limite che non andrebbe sfidato così tanto. Altrimenti i delinquenti si trasformano in miti maledetti, come sta accadendo per le strade e le scuole di Roma, soprattutto tra i giovanissimi.
Per questo speriamo che la fiction tv di Romanzo Criminale sia un esperimento di grande successo che non s’inchiodi nella trappola di un’ altra serie. E’ preferibile correre il rischio di deludere gli affezionati e numerosi spettatori, se serve a strappare al torpore della telenovela o, peggio ancora, al circo di un reality retroattivo, quel che resta di spietati colpevoli. Ma la legge dell’audience divora tutto ed esorcizza il peggiore dei mali confezionando un appuntamento di comodo relax. Tra sgozzamenti, partite di coca e puttane. Sembra di essere in Italia.
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di Mariavittoria Orsolato
Doveva essere un giorno dell’immacolata come tanti: pranzo con i nonni, cioccolata a volontà e il canonico classico Disney in prima serata. Se l’idillio prenatalizio non si è manifestato nella sua interezza, i bambini sintonizzati su Rai 1devono ringraziare Bruno Vespa e il suo promo di Porta a Porta. Cenerentola aveva appena concluso il walzer con il suo principe, parte la pubblicità e sfilano i ritratti di Yara Gambirasio e Sarah Scazzi dietro la scritta “Chi protegge i nostri figli?”, la melliflua voce di Vespa che ammonisce: “Molte ragazzine si saranno commosse davanti a fiabe come quella di Cenerentola ma poi la loro vita è stata spezzata, come successo nei recenti casi di cronaca..”.
Purtroppo a Porta a Porta i sogni non diventano realtà e, sebbene i plastici possano richiamare alla memoria le pacchianissime case di Barbie, l’intento del giornalista era non certo quello di far capire che al mondo esistono solo principi e principesse. Come di dovere scoppia la polemica, con l’Osservatorio per i diritti dei minori imbufalito e un Vespa che risponde piccato: “Fare servizio pubblico è anche e soprattutto questo”.
Secondo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio il promo di Porta a Porta, inserito in quel contesto, “è da considerarsi nefasto” in quanto mirato a suscitare apprensione tra i minorenni e gli adulti, in quel momento intenti a gustarsi l’evergreen disneyano.
Vespa è una vecchia volpe e sa infatti molto bene che irrompere nei salotti delle famiglie italiane con un tale monito, da garanzia di ascolti record: drammatizzare i casi cronaca nera è una specialità del giornalista Rai e, probabilmente conscio di essere a tutti gli effetti in campagna elettorale, buttandola lì sul problema sicurezza sarebbe riuscito nel mirabile intento di cogliere due piccioni con una fava. Che poi le tristi storie delle due ragazzine non abbiano nulla in comune, se non la vicinanza anagrafica delle vittime, è un altro paio di maniche.
La vicenda della quindicenne pugliese, incappata in un’imboscata squisitamente familiare non ha nulla da spartire con la scomparsa della tredicenne bergamasca che, nonostante manchi da casa da ormai due settimane, deve ancora essere trovata cadavere. Ma si sa che lanciare allarmi indiscriminati sul mondo adolescenziale fa inevitabilmente presa sulle schiere di genitori in apprensione per un’età certamente difficile e complicata da penetrare.
Al pubblico adulto non importa che i casi di Sarah e Yara siano due episodi eccezionali: la tempistica degli eventi li porta naturalmente ad accomunarli e a pensare inconsciamente: “Se è capitato a loro, potrebbe accadere anche ai miei di figli”. Il dato preoccupante in questa querelle, che è poi quello contro cui puntano l’indice Marziale e l’Osservatorio, è il fatto che lo stesso insinuante dubbio che avrebbe colto i genitori, si sarebbe manifestato anche nei bambini ( più o meno cresciuti) presenti a quell’ora davanti agli schermi di Rai 1.
Ogni codice deontologico o di regolamentazione sottoscritto dai tempi della Carta di Treviso indica nei minori dei soggetti deboli e perciò meritevoli di tutela da parte delle istituzioni sociali. Per quanto riguarda la televisione, il codice di autoregolamentazione prescrive al secondo capo, comma 2.3, che le imprese televisive debbano impegnarsi a “non diffondere dalle ore 7.00 alle 22.30 notizie che possano nuocere all’integrità psichica o morale dei minorenni”. Specificando poi che “qualora, per casi di straordinario valore sociale o informativo, la trasmissione di notizie o immagini particolarmente forti e impressionanti si renda effettivamente necessaria, il giornalista o il conduttore televisivo avviserà gli spettatori che le notizie, le immagini e le parole che verranno trasmesse non sono adatte ai minori”.
Vespa e il suo promo, andandosi a collocare alle ore 22.20, hanno in effetti contravvenuto alle disposizioni dei garanti andando a turbare, con l’evidente intento allarmistico, l’equilibrio di bambini e bambine il cui unico scopo era di intrattenersi con una favola che, in quanto tale, li avrebbe dovuti allontanare per l’esiguo spazio di 90 minuti, dall’oppressiva e talvolta infida quotidianità. Dopo l’esemplare punizione a Loris Mazzetti, capostruttura Rai reo di aver sforato di due minuti sui tempi prescritti per Vieni via con me, attendiamo ora la sanzione per l’anchorman di Rai 1, consapevoli comunque che solo nelle favole i cattivi hanno la peggio.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Invitato ieri sera sul palco del Volksbühne di Berlino dall'Istituto di cultura italiana, Roberto Saviano ha portato in scena il monologo "La bellezza e l'inferno" per il pubblico della capitale tedesca. Nella sua interpretazione Saviano non parla di televisione né di politici italiani: al centro dei suoi racconti ci sono le persone semplici e le loro storie quotidiane.
L'attenzione di Saviano si rivolge, in particolare, alle vittime delle politiche sbagliate di tutto il mondo, che muoiono quotidianamente nell'ignoranza collettiva. Nonostante si parli di altro, il monologo di Saviano va a giudicare la televisione italiana come pochi altre critiche hanno saputo fare, in una maniera pesante e intrinseca.
Saviano racconta innanzitutto la storia di Neda, uccisa l'anno scorso dalle forze militari iraniane a Teheran durante una manifestazione contro il regime del presidente Mahamud Ahmadinejad. Una storia come tante, sottolinea Saviano, che non cade nell'oblio solo grazie alle riprese amatoriali di un manifestante: gli ultimi istanti della vita di Neda vengono registrati da un cellulare e il video viene caricato su Youtube da ignoti. La cruda testimonianza di questo video scatena reazioni internazionali inaspettate che permettono a Neda di diventare un simbolo.
E poi la storia di Ken-Saro Wiwa, lo scrittore militante nigeriano impiccato nel 1995 dal regime militare della Nigeria stessa, alleato degli Stati Uniti, a causa della sua denuncia contro le operazioni di Shell nel territorio. Dal 1958 la multinazionale estrae petrolio intorno al delta del fiume Niger, avvelenando la zona circostante senza nessuna tutela per lavoratori e indigeni. Wiwa ha raccontato l'ingiustizia con un libro e con le sue poesie e la punizione del regime capitalistico è stata esemplare.
Ma Saviano non dimentica la cantante Miriam Makeba e il suo concerto del 2008 a Castelvolturno. Un concerto che Makeba, detta Mama Afrika, ha voluto dedicare ai nigeriani di Castelvolturno, a quegli immigrati che hanno avuto il coraggio di ribellarsi al Sistema di oppressione imposto da camorra e mafia nigeriana. Gli immigrati hanno avuto il coraggio di alzare i pugni per difendere i diritti più semplici che le forze di potere abusive cercavano di togliere: uno schiaffo morale a gli italiani, che non sembrano più in grado di usufruire del diritto alla protesta o che, forse, si sono rassegnati alla paura.
Oltre a ricordare le vittime di regimi e sistemi sbagliati, Saviano inneggia a quei media che danno risalto a situazioni d'inferno ordinario. Il video amatoriale di Neda, il libro di Wiwa, il concerto di Makeba sono i mezzi che attirano l'attenzione di tutti e che fanno, quindi, paura al potere. Neda, Shell e i nigeriani di Volturno smettono di essere una notizia come tante che scorre nei sottotitoli del telegiornale e vanno a raggiungere la quotidianità del pubblico. E i regimi hanno paura. "Sono i contenuti a inquietare", commenta Saviano in proposito.
I mezzi di comunicazione, quindi, che rendono vivo quello che non appartiene alla nostra quotidianità. I media e l'arte come il primo, fondamentale passo per cambiare effettivamente qualcosa perché ci strappano di forza dall'ignoranza. Eppure, Saviano è a Berlino per parlare all'Italia. È a teatro per parlare alla televisione, dato che era stato annunciato ad Annozero e una sua intervista è stata mandata in onda su RaiTre con tutte le polemiche del caso.
Saviano parla del teatro berlinese come di un "escamotage", ma più che un trucco d'arte, la sua scelta assomiglia a un'accusa verso una televisione che non fa il suo dovere o, peggio ancora, che non all'altezza della situazione. Una critica intrinseca insomma, verso un mezzo che sembra destinato ad addormentare la nazione più che a farla crescere ed evolvere.
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di Mariavittoria Orsolato
Non pago di avere in più occasioni svelato il suo altissimo senso del dovere (verso Berlusconi ofcourse) il numero uno di viale Mazzini - il solerte Mauro Masi - si ritrova nuovamente al centro delle cronache per il suo reiterato tentativo di bloccare un programma in fase di avvio. Dopo “Report” e “Parla con me” - e nell’attesa (vana) di veder scorrere lungo il suo personale fiume il cadavere della nemesi Santoro - il baffuto dg Rai va ora a ostacolare la nuova creatura dell’inedito duo Fazio-Saviano, il programma di approfondimento culturale “Vieni via con me”.
Il pretesto è come al solito farlocco e si sostanzia nel porre il veto non tanto ai due intoccabili hosts, ma ai loro superospiti. Il motivo? Chiedono compensi troppo esosi e l’azienda proprio non se li può permettere, quando un solo Bruno Vespa costa 1.187.800 Euro all’anno. In questi tempi di vacche anoressiche le motivazioni addotte dal megadirettore potrebbero anche avere un senso: il bilancio in perenne deficit e le condizioni avverse del mercato pubblicitario impongono un elevato grado di austerità.
Ma il maldestro Masi, nella sua smania di compiacere l’inquilino di Palazzo Chigi, pare dimenticarsi del fatto che il programma in questione è l’evento televisivo più atteso dell’anno e che gli ospiti cui ha bellamente sbattuto la porta in faccia sono premi Oscar del calibro di Roberto Benigni o rockstar planetarie come il leader degli U2 Bono Vox. Gente insomma che se anche si mettesse a fare le pernacchie con l’ascella davanti a un microfono farebbe come minimo il 30% di share. Fatto di non poco conto se si pensa che gli spazi pubblicitari in contesti come questo si vendono a peso d’oro.
Di fronte a cotanto perseverare, l’iniziale e sacrosanta indignazione muta in cinica ilarità nel momento in cui ci si ritrova a constatare come, nonostante i salti mortali per applicare un mobbing formalmente accettabile, Mauro Masi finisca sempre per favorire chi in realtà vorrebbe penalizzare e viceversa. Prestandosi al gioco al massacro che B. vorrebbe applicato a tutti i sussulti di autonomia creativa o di semplice deontologia giornalistica, il direttore generale Rai non fa altro che pubblicizzare - e, nel caso di Santoro, addirittura canonizzare - le espressioni che vorrebbe costringere a far chiudere. Al contempo, riesce a tirare una gigantesca zappa sui piedi all’azienda che è stato chiamato a dirigere ed eventualmente risollevare.
E lo fa sia in termini di immagine - ormai definitivamente compromessa - che in termini economici, contravvenendo a quella che dovrebbe essere la condotta connaturata al suo ruolo: come ha giustamente sottolineato il conduttore di “Annozero” nel monologo che passerà alla storia come il discorso del vaffanbicchiere, non è assolutamente concepibile che il capo di un’azienda qualunque (a maggior ragione la Rai) remi così palesemente contro quello che dovrebbe essere il suo stesso interesse.
Cosa che non pretendiamo essere la qualità del servizio offerto ma almeno la quantità di introiti necessari alla sopravvivenza del baraccone altresì noto come tv di Stato: un enorme aspirapolvere di risorse cui i contribuenti sono coattati a provvedere tramite canone.
Che la Rai sia il paradiso della lottizzazione più selvaggia e il rifugio dorato dei fedelissimi di Padron ‘Silvio non è di certo una novità, da Deborah Bergamini in poi tutti hanno fatto il gioco della concorrenza, finendo per impaludare un’emittente (ri)nata con il preciso intento di essere un servizio alla cittadinanza.
Masi, probabilmente suo malgrado, rimane infatti il principale dirigente di una delle più mastodontiche aziende pubbliche e, nonostante il suo compito precipuo sia quello di lavorare in modo tale da giovare ad una Rai in evidente caduta libera, nel suo operato si ravvisa solo la volontà di ostacolare su commissione le pochissime voci del palinsesto che, oltre a produrre trasmissioni di indubbia qualità, sono di fatto le galline dalle uova d’oro in termini di raccolta pubblicitaria. Insomma, traslando con il linguaggio gretto che tanto piace ai mufloni leghisti, Masi si ritrova a fare la parte del marito che pur di fare dispetto alla moglie si evira.
Una condotta a dir poco paradossale che in un contesto privato porterebbe all’immediato licenziamento e che all’interno di un’emanazione della pubblica amministrazione dovrebbe almeno rischiare gravi sanzioni o, meglio ancora, passare sotto il vaglio impietoso della Corte dei conti per i danni economici che l’azienda subisce in forza del suo operare. Di fronte ai mancati introiti derivati, l’organismo posto a vigilare sul corretto utilizzo dei soldi pubblici non potrebbe far altro se non constatare l’assoluta inadeguatezza di Masi a ricoprire il ruolo di dirigenza.