La vittoria a sorpresa di Zohran Mamdani nelle primarie del Partito Democratico per le elezioni del prossimo novembre alla carica di sindaco di New York ha mandato letteralmente in fibrillazione l’establishment politico americano sia a destra sia a (centro-)sinistra. Il 33enne di fede musulmana e nato in Uganda da genitori di origine indiana – la madre è la nota regista Mira Nair – ha stravolto le gerarchie democratiche nella città che è il simbolo stesso del turbo-capitalismo USA grazie a un programma orientato verso i bisogni di lavoratori e classe media o, secondo la caratterizzazione proposta dai suoi oppositori, “socialista”. Il successo di Mamdani porta alla luce, in un sistema dominato da una ristretta oligarchia, questioni potenzialmente esplosive, che però tutta la classe dirigente americana intende soffocare il prima possibile, così da garantire che, per quante spinte in direzione progressista o addirittura “rivoluzionarie” esistano nella società, anche le elezioni che decideranno il prossimo primo cittadino di New York continuino a rimanere un innocuo esercizio politico.
Nelle affollate primarie democratiche terminate martedì, per molto tempo il netto favorito era stato l’ex governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, tornato sulla scena politica dopo essere caduto in disgrazia qualche anno fa in seguito ad accuse di molestie sessuali e di avere cercato di occultare il numero di decessi nelle case di cura dello stato a causa del COVID-19. Solo con l’avvicinarsi della data delle primarie, Mamdani aveva recuperato terreno, anche grazie a un’organizzazione in grado di promuovere l’immagine di un inesperto e poco conosciuto membro del consiglio comunale newyorchese, eletto nel “borough” di Queens.
In un sondaggio pubblicato alla vigilia del voto, Mamdani era dato in vantaggio di una manciata di punti su Cuomo. Per via del complicato sistema elettorale della città, i risultati definitivi verranno ufficializzati solo tra alcuni giorni, ma il margine (43% a 36%) rende impossibile una rimonta da parte dell’ex governatore, il quale aveva infatti subito ammesso la sconfitta. Tutti i fattori che venivano giudicati come fardelli da stampa e commentatori “mainstream” sono alla fine diventati elementi vincenti per Mamdani. Ovvero, il presentarsi come un vero candidato di sinistra nella metropoli dei miliardari e di Wall Street ha determinato la sua vittoria su un rivale espressione dell’establishment e molto meglio finanziato.
Anzi, l’identificazione di Cuomo con i grandi interessi economici e finanziari della città, nonché con i sostenitori del regime sionista israeliano, è stata la chiave della sua sconfitta, perché respinti dalla maggioranza degli elettori democratici, che rappresentano a loro volta la maggioranza di quelli di New York. Tanto per comprendere quali forze Mamdani si è trovato a combattere, si possono elencare alcuni dei sostenitori e finanziatori di Cuomo: dall’impero mediatico di Murdoch a Bill Clinton, dai leader democratici al Congresso di Washington a Alex Karp, numero uno della controversa società di software operante nel settore dell’intelligence e della difesa Palantir, fino all’ex sindaco multimiliardario Michael Bloomberg.
Il terremoto Mamdani ha così sgretolato alcune verità ritenute incontrovertibili della realtà politica negli Stati Uniti. La prima e più sacra è che un’agenda socialista o anche solo la parola socialismo accostata a un politico costituisce automaticamente una garanzia di insuccesso in un paese dove in pratica tutto l’elettorato venera il libero mercato e i benefici che produrrebbe. Mamdani si identifica con l’ala del suo partito che si auto-definisce “socialista-democratica” (DSA) e vi erano quindi poche possibilità di equivoci nella scelta degli elettori. Alcuni punti del suo programma non lasciavano a loro volta dubbi in proposito, nonostante abbiano poco o nulla a che fare con un’alternativa realmente socialista, e riguardano, tra l’altro, il controllo degli affitti, l’aumento delle tasse per i più ricchi, l’abbassamento dei costi di trasporti pubblici e scuole d’infanzia.
Ciò che è emerso dal voto è la propensione della maggior parte dei residenti di New York a premiare un candidato che promette di adoperarsi per ridurre il costo della vita esorbitante nella città, mentre è stata respinta l’alternativa rappresentata dall’ennesimo politico al servizio dei grandi interessi della metropoli. Mamdani, in altre parole, non ha vinto le primarie nonostante il collegamento al “socialismo”, ma proprio grazie a ciò. Com’era già risultato chiaro nel recente passato, esiste un profondo interesse anche nella popolazione americana per un sistema alternativo realmente di sinistra, che però semplicemente viene soppresso e in ogni occasione giudicato inattuabile da media, politici e accademici “ufficiali”.
Un altro mito sfatato dalla vittoria di Mamdani è l’impossibilità di criticare Israele e il genocidio che il regime di Netanyahu sta conducendo a Gaza con la complicità del governo USA, pena l’accusa di anti-semitismo e la catastrofe politico-elettorale. Sia pure attirando su di sé una valanga di critiche e attacchi, durante la campagna Mamdani ha condannato la brutalità di Tel Aviv, arrivando a impegnarsi a fare arrestare Netanyahu se dovesse mettere piede a New York. La denuncia di Israele, ammorbidita solo in parte in un’intervista pre-voto nella quale Mamdani affermava il diritto a esistere dello stato ebraico, è stata in effetti uno dei fattori decisivi nella sua vittoria, anche in una città che ospita un numero di residenti ebrei come nessun’altra in America.
I risultati delle primarie di martedì hanno anche smentito lo spostamento verso destra dell’elettorato negli Stati Uniti, presumibilmente in parallelo all’ascesa di Donald Trump. La facilità con cui il presidente repubblicano ha raccolto consensi tra la “working-class” americana dipende più che altro dalla sua capacità di proporsi come alternativa con una patina populista a un sistema bloccato che non consente l’emergere di proposte politiche di sinistra. Soprattutto, il “focus” di Mamdani sui temi economici ha mostrato come la maggioranza della popolazione, al di fuori dei ceti privilegiati, sia motivata nelle scelte politiche da fattori di “classe” piuttosto che di razza o di genere, come vorrebbe invece il Partito Democratico americano e, in generale, la finta sinistra in tutto l’Occidente.
Tutti questi fattori testimoniano della rilevanza della vittoria di Zohran Mamdani nelle primarie per le elezioni a sindaco di New York. Tuttavia, se anche quest’ultimo dovesse vincere a novembre, le probabilità che riesca o abbia la volontà di implementare anche solo una minima parte del suo programma elettorale sono vicine allo zero. E ciò per una serie di ragioni. In primo luogo, gli ambienti politici, mediatici, economici e finanziari che si oppongono a Mamdani e a qualsiasi cambiamento in senso progressista delle politiche della città di New York – e non solo – faranno di tutto per impedire la sua vittoria, a meno che non operi una netta frenata o una svolta moderata che tranquillizzi Wall Street e gli oligarchi che controllano le leve del potere nella città.
Un’altra strategia è quella di neutralizzare la minaccia Mamdani abbracciando l’entusiasmo che ha generato tra gli elettori, soprattutto giovani, e celebrando le tecniche di marketing utilizzate in maniera vincente dal suo team, ma minimizzando allo stesso tempo i contenuti del programma. In questo senso si è già mosso ad esempio il leader dei democratici al Senato, Chuck Schumer, autentico prodotto della classe miliardaria newyorchese che, in una sorta di abbraccio mortale, ha espresso subito apprezzamento per il trionfatore nelle primarie del suo partito. Lo stesso ha fatto sostanzialmente il New York Times, con commenti positivi nei confronti di Mamdani che intendono rassicurare il capitalismo della città circa le intenzioni e gli spazi di manovra del possibile futuro sindaco.
È indiscutibile che la mancata metamorfosi di Mamdani nelle prossime settimane comporterebbe una guerra aperta contro la sua candidatura, fatta di razzismo, accuse di anti-semitismo e, in particolare, isteria anti-comunista. I repubblicani e la destra in genere hanno peraltro già inaugurato questa linea d’attacco ben prima di conoscere i risultati delle primarie. Sui media ultra-conservatori e i “social” si sprecano le accuse di marxismo, socialismo, comunismo nei suoi confronti, come se una minaccia “rossa” stesse gravando sul cuore del capitalismo americano e mondiale. Lo stesso presidente Trump è subito intervenuto mercoledì definendo Mamdani in un post sul suo social Truth come un “folle comunista al 100%”. Questo atteggiamento, decisamente e quasi ridicolmente spropositato, nasconde una paura radicatissima negli ambienti di potere per l’interesse crescente che il socialismo, o comunque un’alternativa politica popolare e di sinistra, suscita anche tra gli americani.
Le stesse preoccupazioni circolano peraltro anche tra i democratici, che temono di perdere la narrativa fintamente progressista incentrata su questioni socialmente ed economicamente inoffensive, come appunto quelle dell’identità sessuale o razziale. In definitiva, al di là dell’atteggiamento che terrà Mamdani nella campagna elettorale in vista del voto di novembre, riporre speranze di cambiamento nel Partito Democratico non è altro che un’illusione. Basti ricordare gli esempi dei leader dell’ala sinistra del partito, da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio-Cortez (AOC), entrambi entusiasti sostenitori del fresco vincitore delle primarie democratiche a New York.
Tutti e due parlano da anni di una qualche “rivoluzione politica” in America ricorrendo a una retorica che fa appello agli interessi della “working-class”. Nel concreto, invece, le loro scelte risultano molto attente a mantenere qualsiasi sussulto di rivolta nella gabbia del Partito Democratico, per incanalarlo in un vicolo cieco. Sanders, d’altronde, nonostante l’enorme capitale politico accumulato nelle primarie presidenziali del 2016, finì per piegarsi al boicottaggio della sua candidatura da parte dei vertici democratici e per appoggiare Hillary Clinton. Lo stesso ha fatto poi nel 2020 lasciando strada e sostenendo Biden, così come Kamala Harris lo scorso anno, denunciando solo a parole il genocidio palestinese nel quale il presidente e la sua vice erano complici a tutti gli effetti. In una parola, le sue scelte di allinearsi al Partito Democratico hanno favorito le due vittorie nelle presidenziali di Donald Trump.
Il Partito Democratico è e resterà il partito di Wall Street e del capitalismo a stelle e strisce e, ancor più, dell’apparato militare e dell’intelligence, mentre elettoralmente rappresenta le classi privilegiate dell’alta borghesia e dei super ricchi, quanto meno quella parte che non vota repubblicano. Movimenti o personalità riconducibili ai “socialisti democratici” fungono quasi esclusivamente da valvole di sfogo delle tensioni sociali e per perpetuare l’illusione di un partito che guarda a lavoratori e classe media.
In questa realtà, non sarà l’entusiasmo suscitato da Zohran Mamdani a cambiare le cose, per quanto la sua candidatura e il successo di questa settimana sollevino questioni politiche fondamentali. Senza una rottura del duopolio che domina la politica americana e un’offensiva frontale dal basso contro un sistema ultra-classista e paralizzato, continueranno a non esistere soluzioni elettorali per promuovere il cambiamento politico-sociale negli Stati Uniti, così come nel resto delle “democrazie” occidentali.