Il ritorno alle politiche di ostilità e alle sanzioni unilaterali contro l’Iran da parte della nuova amministrazione Trump a prima vista smentisce precocemente quegli osservatori che ipotizzavano un possibile allentamento delle tensioni tra Washington e Teheran alla luce della volontà del presidente repubblicano di evitare di imbrigliare gli Stati Uniti in un’altra guerra impossibile da vincere. Il decreto firmato da Trump martedì, che rispolvera le politiche di “massima pressione” nei confronti della Repubblica Islamica, se anche nella sostanza cambia di poco gli scenari visti durante il mandato di Joe Biden, sembra infatti contraddire una delle promesse centrali della sua campagna elettorale. Mercoledì, però, lo stesso Trump ha annunciato di volere un accordo sul nucleare, definendo poi “esagerata” la notizia di un piano congiunto USA-Israele per attaccare militarmente l’Iran. Le decisioni relative ai rapporti con questo paese sono in ogni caso ancora tutte da definire e le sfumature delle prime mosse della Casa Bianca potrebbero annunciare almeno un parziale cambiamento di rotta, anche se il percorso resta estremamente complesso e accidentato.

Tutt’altro cha casualmente, l’annuncio di Trump circa la “massima pressione” sull’Iran è coinciso con la visita a Washington del primo ministro israeliano Netanyahu, conclusa dalla delirante minaccia del presidente USA di prendere possesso della striscia di Gaza dopo l’espulsione della popolazione palestinese. Il riferimento all’Iran è da ricondurre in sostanza alla trama, fatta di incentivi, avvertimenti, aperture e ricatti che dovrebbe definire la nascente strategia trumpiana in Medio Oriente.

La campagna presumibilmente inaugurata dalla direttiva del presidente avrebbe due obiettivi primari: impedire che Teheran arrivi a ottenere armi nucleari e azzerare le esportazioni di petrolio. Se il primo fosse realmente sulla lista delle priorità americane, l’iniziativa di Trump risulterebbe superflua, visto che recentemente anche il direttore uscente della CIA, William Burns, ha confermato che non esistono elementi nemmeno per concludere che i vertici della Repubblica Islamica abbiano deciso di autorizzare la costruzione di un ordigno nucleare.

Lo stop all’export di greggio è invece come sempre un miraggio, visto che anni di sanzioni punitive non hanno dato risultati, se non parziali. I dati ufficiali indicano infatti che nel 2024 l’Iran ha esportato la quantità maggiore di petrolio degli ultimi cinque anni, nonostante l’aggiunta di altre sanzioni da parte dell’amministrazione Biden. Dalle notizie che circolano, le intenzioni sarebbero di ricorrere ancora di più alle famigerate sanzioni secondarie, ovvero a misure che andrebbero a colpire i paesi e le compagnie che acquistano petrolio iraniano, verosimilmente a cominciare dalla Cina.

È difficile contestare il fatto che nuove sanzioni creerebbero ulteriori difficoltà all’economia iraniana e che il governo di Teheran punti invece a un allentamento della stretta. In particolare, i problemi legati alle carenze infrastrutturali stanno mettendo in crisi svariati settori industriali, per via anche dell’impossibilità di attirare gli investimenti necessari a causa appunto delle sanzioni. Che la “massima pressione” di Trump possa produrre i risultati sperati, come la sottomissione dell’Iran o il cambio di regime, appare tuttavia illusorio.

Pur nella sempre difficile lettura degli intenti di Trump, alcune precisazioni fatte dal presidente americano nel discutere con la stampa delle misure relative all’Iran lasciano forse intravedere un approccio più sfumato. Trump ha spiegato di essere “scontento” di firmare il decreto che reintroduce le politiche di “massima pressione” e si augura perciò di “non dover fare troppo ricorso” a esse. Lasciando quindi la porta aperta a un accordo, Trump ha poi spiegato di essere disposto a incontrare e discutere con la sua controparte iraniana. Da Teheran è stata in ogni caso subita smentita la possibilità di un faccia a faccia a breve tra Trump e il presidente, Masoud Pezeshkian.

La leadership iraniana mantiene comprensibilmente un atteggiamento cauto verso l’amministrazione Trump, ma vari segnali hanno recentemente mostrato come l’opzione del negoziato venga presa in considerazione a Teheran. In un’intervista di gennaio alla NBC, ad esempio, Pezeshkian aveva espresso la disponibilità del suo governo a “dialogare” con Washington, sempre che ciò avvenga su un piano di uguaglianza e nel rispetto della “dignità” del suo paese. In precedenza, anche la guida della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei, aveva riconosciuto indirettamente il suo appoggio all’opzione diplomatica, quando in un discorso pubblico aveva avvertito dei rischi insiti nel negoziato con gli Stati Uniti.

Nelle valutazioni di Trump sull’Iran gioca com’è ovvio un ruolo fondamentale l’alleato israeliano. Non è facile capire fino a che punto Netanyahu abbia influenza sul presidente USA nelle scelte relative al “problema” Iran o se, viceversa, Trump stia manovrando con il premier-criminale di guerra per evitare che la crisi con Teheran sfoci in una guerra rovinosa. La retorica a tratti molto aggressiva potrebbe in altre parole nascondere una preferenza dell’amministrazione repubblicana per una tattica fatta di pressioni e minacce, vedi i casi recenti di Colombia, Canada e Messico, per convincere la controparte a piegarsi, accettando la trattativa e, soprattutto, le condizioni dettate da Washington.

I rischi di un’escalation fuori controllo, visti gli eventi dell’ultimo anno, sono comunque notevoli. In questo senso, pesano le illusioni che sembrano circolare tra i servizi di intelligence e i governi di USA e Israele circa la presunta debolezza iraniana in questo frangente storico, ma anche la disperazione di Netanyahu, che, in un certo senso, si vede costretto a perpetuare il caos nella regione per la propria sopravvivenza politica.

D’altro canto, Trump appare deciso a promuovere finalmente la normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e l’Arabia Saudita, ma la condizione principale per mandare in porto questo accordo è il delinearsi di un clima più stabile in Medio Oriente, mentre l’aggravarsi della crisi palestinese o una guerra aperta con l’Iran complicherebbero gli scenari auspicati dalla Casa Bianca.

In molti tra i commentatori indipendenti hanno citato infine alcuni avvicendamenti del personale diplomatico con incarichi collegati al “file” iraniano, ordinati da Trump, come un altro dei segnali di un possibile cambiamento. Esempi di ciò sarebbero, tra gli altri, la marginalizzazione dei falchi che affollavano la precedente amministrazione Trump, come John Bolton, Mike Pompeo e l’inviato speciale per l’Iran, Brian Hook, e la nomina a vice assistente al segretario alla Difesa di Mike Dimino, universalmente considerato su posizioni moderate e pragmatiche in relazione al Medio Oriente.

Se la diplomazia fosse davvero nei piani di Trump, molto dipenderà comunque da quale genere di accordo il presidente USA voglia perseguire con l’Iran. Nel caso le condizioni poste nel primo mandato fossero un’indicazione di ciò, le probabilità di successo sarebbero minime o del tutto inesistenti. In particolare, Trump puntava a imporre verifiche stringenti non solo del programma nucleare civile iraniano, ma anche e soprattutto delle strutture militari. Aspetto, quest’ultimo, evidentemente inaccettabile per Teheran. La questione si riconnette insomma sempre agli equilibri regionali, con gli interessi americani e israeliani minacciati dalle potenzialità belliche iraniane, al di là della questione, ingigantita ad arte, delle armi atomiche che sarebbero, secondo Washington e Tel Aviv, perennemente a portata di mano della Repubblica Islamica.

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