Ad appena due settimane dal secondo insediamento alla Casa Bianca, le misure già implementate o soltanto minacciate dal presidente americano Trump stanno gettando lo scompiglio nelle relazioni tra gli Stati Uniti i loro alleati. L’introduzione di nuovi dazi sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, oltre che su quelle cinesi, hanno innescato un dibattito infuocato malgrado il parziale passo indietro annunciato nella giornata di lunedì. La sospensione dei dazi per le merci messicane è però per il momento solo temporanea e l’eventuale reimposizione di qui a poche settimane, assieme alla volontà dei governi dei paesi colpiti di adottare contro-misure, potrebbe facilmente provocare una guerra commerciale vera e propria, come minimo con effetti fortemente penalizzanti per l’economia nordamericana e non solo.

Come quasi sempre accade con Trump, una determinata iniziativa si accompagna a tesi e giustificazioni totalmente sganciate dalla realtà, ma anche a segnali e indizi sia delle ragioni di un comportamento apparentemente irrazionale sia delle possibili vie d’uscita alle crisi che le stesse decisioni possono produrre. Restando ai fatti, Trump aveva collegato l’imposizione di dazi, già a partire da martedì, all’incapacità di Canada, Cina e Messico di fermare o limitare drasticamente i flussi migratori illegali e il traffico di droga, inclusi i componenti chimici destinati alla produzione del famigerato fentanyl.

Lunedì è circolata poi la notizia che Trump e la presidente messicana, Claudia Sheinbaum, hanno trovato un accordo sulla sospensione di un mese dei dazi per permettere lo svolgimento di negoziati bilaterali. Il Messico avrebbe acconsentito a intraprendere provvedimenti volti a limitare l’ingresso negli USA di immigrati clandestini e stupefacenti, tra l’altro dispiegando 10 mila militari al confine settentrionale. Il presidente americano ha fatto sapere inoltre di avere avuto una conversazione con il premier dimissionario canadese, Justin Trudeau, ma un’eventuale sospensione delle misure punitive contro questo paese sarà discussa in un altro colloquio in programma nel pomeriggio americano di lunedì.

L’ennesimo decreto presidenziale firmato da Trump a partire dal 20 gennaio intendeva applicare dazi del 25% a tappeto su tutte le merci esportate dal Canada e dal Messico verso gli USA. Sui prodotti cinesi la tariffa è invece del 10%, ma si aggiunge a quelle già stabilite dalla precedente amministrazione Biden e durante il primo mandato di Trump. Viste le probabili conseguenze in termini di costi per aziende e consumatori, la Casa Bianca ha limitato al 10% i dazi sul greggio in ingresso dal Canada, che costituisce il 60% di quello complessivamente importato da Washington.

Per dare una base legale a questi dazi, Trump ha invocato in maniera a dir poco discutibile i poteri che gli deriverebbero da una legge (IEEPA) che fa riferimento al sopraggiungere di una specifica “emergenza economica”, tale da giustificare misure unilaterali nell’ambito del commercio estero. Le decisioni di questi giorni sarebbero comunque solo la prima fase di un piano ultra-aggressivo, di fatto per ridisegnare l’architettura dell’economia globale, in ultima analisi al fine di favorire gli interessi strategici americani nell’ottica della competizione con la Cina. L’annuncio che ha scosso governi e mercati potrebbe alla fine rientrare, quanto meno momentaneamente, e sembra configurarsi per ora come un altro elemento della tattica negoziale di Trump per ottenere vittorie di facciata che soddisfino il proprio elettorato, ma anche per consolidare una strategia politica basata sulla minaccia e l’estorsione.

L’aumento delle tariffe doganali sull’import cinese, per il momento non ancora soggetto a inversioni di rotta come nel caso del Messico anche se discussioni con le autorità di Pechino sono previste nelle prossime ore, va inquadrato nei preparativi di lungo o, nella peggiore delle ipotesi, medio periodo per un possibile scontro militare con Pechino. Una prospettiva evidentemente studiata da tempo a Washington e che implica lo sganciamento dell’industria americana dalla catena di approvvigionamento che passa o dipende dai prodotti cinesi. L’analista militare americano Brian Berletic ha spiegato a questo proposito in un’intervista pubblicata domenica dalla rete russa Sputink: “Gli USA si stanno preparando alla guerra con la Cina e, proprio come nella loro guerra per procura con la Russia, sanno che le forniture di materiali e componenti che arrivano dalla Cina verranno inevitabilmente interrotte presto o tardi”. Questi dazi servono perciò ad accelerare un esito di questo genere, così che per rimediare alla mancanza di beni cinesi, che in parte alimentano l’industria bellica americana, si possa disporre di più tempo e in uno scenario di pace, evitando di affrontare le difficoltà che ne deriverebbero se ciò accadesse nel pieno di una guerra.

Anche le misure che potrebbero colpire i prodotti importati dai paesi confinanti hanno a che fare con le manovre per rafforzare la base industriale domestica in previsione di un rilancio della posizione degli Stati Uniti sul piano internazionale. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca, come era già chiaro, segna d’altra parte la liquidazione anche delle formalità diplomatiche ed esteriori nei rapporti con gli stessi alleati e partner. Ciò che guida le politiche di Washington sembrano essere ora gli interessi espliciti dell’Impero, da imporre anche con misure estreme se non con il ricorso alla forza.

I tre paesi interessati dalle misure doganali sono infatti i partner commerciali più importanti degli Stati Uniti. La quantità di beni interessati dai dazi sarebbe quindi tale che i consumatori e le aziende americane finirebbero per pagare talvolta a caro prezzo le decisioni di Trump. Non solo, per quel che ha a che fare con Messico e Canada, sarebbe facile prevedere il caos nelle catene produttive altamente integrate, grazie principalmente all’accordo di libero scambio nordamericano USMCA (ex NAFTA), soprattutto nel settore automobilistico.

La stessa logica che guida le misure introdotte o sospese in queste ore potrebbe portare a breve anche all’aggiunta di dazi alle importazioni dall’Europa, dove il ritorno di Trump ha da mesi scatenato discussioni sul futuro dei rapporti transatlantici e sulle contromisure da adottare per non affondare del tutto l’economia del vecchio continente dopo il suicidio ucraino.

Per ora, l’impatto su Canada e Messico non sarebbe difficile da immaginare, visto che i due paesi vendono negli USA rispettivamente il 77% e l’80% delle loro esportazioni. Se in America i nuovi dazi verrebbero pagati dai consumatori, oltre il confine settentrionale e meridionale le conseguenze potrebbero essere la chiusura di fabbriche e l’aumento della disoccupazione. Sia a Ottawa sia a Città del Messico le reazioni erano state perciò piuttosto ferme. Entrambi i governi avevano annunciato a loro volta dazi sui beni che i loro paesi importano dagli Stati Uniti. Ciò causerebbe il moltiplicarsi degli effetti negativi descritti, ma si tratta d’altra parte della logica delle guerre dei dazi, che possono sostanzialmente sfociare nella resa di una delle due parti o nell’esplosione di un conflitto militare.

Oltre all’imposizione di contro-dazi, Cina e Canada hanno fatto sapere che presenteranno una denuncia all’arbitrato dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), in quanto le azioni di Trump violerebbero le norme da essa stabilite. Ci sono pochi dubbi che questa accusa corrisponda al vero, ma le “violazioni” americane sono state parecchie negli ultimi anni e, in ogni caso, il concetto del rispetto del diritto internazionale o degli accordi vincolanti sottoscritti in passato sta rapidamente crollando sotto il peso della crisi della posizione globale degli Stati Uniti.

Al di là della possibile pausa dai dazi annunciati nei giorni scorsi, queste dinamiche indicano processi oggettivi che stanno emergendo precocemente nel secondo mandato di Trump e si possono ricondurre, come già anticipato, al disegno della nuova amministrazione repubblicana per rimodellare i traffici commerciali planetari, le politiche industriali e gli equilibri nei rapporti internazionali, in moda da consolidare il ruolo egemone degli Stati Uniti in un quadro globale sempre più minaccioso e competitivo. In questo scenario vanno inserite anche le provocazioni sull’annessione di paesi e territori, come il Canada, la Groenlandia e il canale di Panama.

Che poi la strategia trumpiana possa ottenere qualche successo significativo è fortemente in dubbio. Se non altro, le resistenze all’aggressività americana sono destinate ad aumentare e oggi, in seguito al fallimento del progetto ucraino, la credibilità degli USA è ai minimi storici anche fra gli alleati. Un attacco all’ordine globale come quello di Trump suscita infine crescente opposizione sul fronte interno, in primo luogo proprio per via del discredito che incontra virtualmente in ogni parte del pianeta e per il rischio del compattarsi di blocchi alternativi.

Il sito della CNN ha pubblicato lunedì una lunga analisi su questo argomento. Al netto della solita retorica del modello democratico “necessario”, l’articolo mostra chiaramente le paure diffuse nell’apparato di potere tradizionale per il logorarsi del residuo credito degli Stati Uniti in termini di prestigio e leadership. Se Trump dovesse proseguire di questo passo, spiega la CNN, l’America rischierebbe l’isolamento, l’abbandono dei partner e la distruzione dell’ordine internazionale, spingendo inevitabilmente anche “gli alleati nelle braccia di avversari come la Cina”.

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