In queste ultime settimane che precedono l’insediamento formale di Trump alla Casa Bianca, a tenere banco nel dibattito politico americano e non solo continuano a essere le dichiarazioni del presidente eletto sull’ipotesi di annessione da parte degli Stati Uniti di territori di paesi sovrani; tutti, nessuno escluso, alleati di Washington. Parlando alla stampa nella giornata di martedì, Trump non solo non ha smentito le minacce precedenti, ma ha ribadito la disponibilità dell’amministrazione entrante a valutare anche l’uso della forza per far diventare territori americani a tutti gli effetti, tra gli altri, il canale di Panama e la Groenlandia. Dietro la solita arroganza verbale del tycoon di New York ci sono questioni vitali per il dominio globale del capitalismo americano e, per questa ragione, le uscite di Trump devono essere valutate con estrema attenzione.

Significativamente, le frasi sulle ipotesi di annessione si sono accompagnate a minacce a tutto campo nei confronti dei paesi europei della NATO, invitati ad aumentare drasticamente le spese militari, così come dell’Iran e dei suoi alleati in Medio Oriente dove, se non dovesse esserci un’accettazione della supremazia degli interessi di USA e Israele, verrà sostanzialmente scatenata una guerra su vasta scala. Trump è tornato anche a riferirsi al Canada come al “51esimo stato americano” all’indomani delle dimissioni del primo ministro, Justin Trudeau. Per il neo-presidente, che ha in seguito pubblicato una mappa dei territori di Stati Uniti e Canada sotto un’unica bandiera a stelle e strisce, sarebbe giunto il momento di “liberarsi della linea di confine creata artificialmente” tra i due paesi nordamericani.

Panama e la Groenlandia sarebbero acquisizioni imprescindibili per la “sicurezza economica” degli USA, sempre secondo Trump, e le sue parole hanno prevedibilmente incontrato la condanna dei rispettivi leader. La Groenlandia fa parte della Danimarca e ha ottenuto una forma di autonomia governativa nel 1979. Una legge del 2009 ha garantito invece a questo territorio la possibilità di dichiarare l’indipendenza tramite referendum popolare. Il primo ministro groenlandese, Mute Bourup Egede, ha scritto martedì su Facebook che il futuro dell’isola è appunto l’indipendenza, escludendo l’unione con gli Stati Uniti, sia attraverso un acquisto o l’uso della forza.

Non è comunque la prima volta che Trump prospetta una soluzione di questo genere. Già nel 2019 aveva avanzato la proposta di acquistare la Groenlandia dalla Danimarca. L’idea era stata derisa dalla stampa internazionale e rapidamente dimenticata. Il fatto che sia tornato sull’argomento alla vigilia del suo secondo mandato conferma invece la serietà delle intenzioni e l’importanza della questione, se non le effettive possibilità che l’annessione si concretizzi.

A ben vedere, le mire espansionistiche espresse più o meno grossolanamente da Trump si spiegano con la crisi di lunga data degli Stati Uniti come forza egemone planetaria. O, più precisamente, con l’avanzata della “minaccia” sistemica in primo luogo della Cina. Il fatto che Trump parli di annettere il Canada, la Groenlandia e il canale di Panama evidenzia un piano che punta, quanto meno in teoria, a portare sotto il diretto controllo americano una vasta area geografica ricchissima di risorse naturali e che consente di presiedere a rotte navali cruciali, come quella artica e quella che in America Centrale collega gli oceani Atlantico e Pacifico.

In un periodo storico di profondissima crisi e di rivalità crescenti, in altre parole, Trump e i suoi consiglieri disegnano un futuro nel quale gli Stati Uniti sono in gradi di compattare i territori limitrofi in un’unica entità politica per facilitare, grazie ai vantaggi appena descritti, la proiezione planetaria del proprio potere e dei propri interessi strategici. Evidentemente con l’obiettivo di tenere il passo e contrastare la concorrenza di Pechino, ma anche di Mosca. La Cina, ad esempio, anche se non ha una base militare a Panama come sostenuto da Trump, da anni gestisce il traffico portuale alle due estremità del canale. La sua presenza qui costituisce perciò un elemento di disturbo per gli Stati Uniti ed è la vera ragione delle mire panamensi di Trump, il quale ha però cercato di confondere le idee sostenendo senza fondamento che il governo del paese centro-americano si approfitta di Washington, tra l’altro facendo pagare alle imbarcazioni americane tariffe di transito più alte rispetto alle altre.

Un’analista del think tank americano CSIS ha recentemente spiegato al Washington Post che “l’influenza cinese” sul canale di Panama preoccupa gli USA anche per gli effetti che avrebbe su possibili future operazioni militari americane. Il canale sarebbe infatti “una delle principali rotte utilizzate dalle navi da guerra americane di passaggio dall’Atlantico al Pacifico in una situazione di emergenza in cui è in gioco la sicurezza degli Stati Uniti”, come in caso di guerra a Taiwan.

Questi processi e le minacce del presidente eletto americano confermano anche che le norme diplomatiche e il diritto internazionale sono ormai carta straccia e il ritorno di Trump alla Casa Bianca segna, come già si era visto nel primo mandato, la liquidazione anche formale di limiti e vincoli che, almeno esteriormente, avevano segnato i decenni precedenti. Con l’avvertimento di una possibile annessione anche con mezzi militari di Panama, Groenlandia o addirittura Canada, Trump segnala precocemente che a contare nelle relazioni internazionali sarà solo il principio della forza. Niente di nuovo in realtà per la condotta americana, ma da ora senza nemmeno la necessità di nascondere la realtà dietro concetti come “democrazia”, “diritti umani” o “sovranità”.

Nello specifico, la seconda amministrazione Trump delinea un quadro nel quale la priorità dell’intero Occidente, per non dire di tutto il pianeta, sono gli interessi dell’imperialismo e del capitalismo americano. A ciò devono piegarsi gli alleati, cedendo eventualmente territori oppure, nel caso dei paesi NATO e dell’Europa in generale, facendosi carico delle spese militari in una misura senza precedenti e acconsentendo a importare gas o beni di consumo americani fino a invertire gli equilibri commerciali tra le due sponde dell’Atlantico.

La sottomissione degli alleati, trasformati di fatto in vassalli nel completamento del processo già ben avviato grazie al suicidio del progetto ucraino, va ricondotta sempre alla “minaccia” cinese e all’imperativo di raccogliere e massimizzare forze e risorse per consolidare la posizione internazionale degli Stati Uniti. Sul fronte europeo, la minaccia dei dazi o il recente diktat per alzare le spese militari dei membri NATO addirittura al 5% del PIL hanno i contorni del ricatto mafioso e ribaltano oltretutto la realtà dei fatti, configurando l’Alleanza come un’entità che serve a proteggere tutti i membri a spese di Washington, quando è vero il contrario, essendo essa da sempre uno strumento per la proiezione degli interessi americani.

Se le recenti uscite di Trump rispondono dunque agli impulsi di una declinante potenza globale e della sua classe dirigente, altro discorso sono le reali possibilità che le “proposte” di annessione di queste settimane vadano a buon fine. Gli strumenti a disposizione non sono però solo quelli più onerosi di natura bellica, ma, come ad esempio nel caso della Groenlandia, possono essere messi in campo incentivi di varia natura, magari facendo leva sulle aspirazioni indipendentiste dell’isola.

Oppure, ancora, ingigantendo la minaccia rappresentata da nemici che Washington ritiene tali anche per gli altri paesi, così da imporre a questi ultimi cosa è nei loro interessi o meno. Una logica tutto sommato implementata anche dall’amministrazione Biden con la distruzione del gasdotto Nord Stream, che ha di fatto cancellato il legame energetico ultra-vantaggioso tra Germania e Russia, col risultato di schiantare l’economia tedesca a tutto vantaggio degli Stati Uniti.

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