Il primo ministro canadese Justin Trudeau, dimessosi ufficialmente dal suo incarico nella giornata di lunedì, è in qualche modo vittima, oltre che delle politiche implementate dai suoi governi nell’ultimo decennio, della rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il rapido precipitare delle fortune del 53enne ex icona della galassia “liberal” occidentale può infatti essere ricondotto ai fermenti che stanno infiammando la classe politica canadese in preparazione di una possibile offensiva, in primo luogo sul fronte commerciale, della nuova amministrazione repubblicana oltre il confine meridionale. Il suo Partito Liberale dovrà ora trovare un nuovo leader in tempi brevi, ma nulla servirà a impedire la vittoria nelle molto probabili elezioni anticipate di un Partito Conservatore sempre più orientato verso l’estrema destra populista.

Nelle ore precedenti la conferenza stampa di addio del premier canadese si erano inseguite con insistenza le voci sulle sue dimissioni. Il punto di non ritorno era stato però raggiunto già attorno alla metà di dicembre, quando le tensioni interne al governo erano esplose pubblicamente in seguito alla durissima lettera di dimissioni firmata dall’allora vice-premier e ministro delle Finanze, Chrystia Freeland. La vicenda si inseriva nella polemica scatenata dalla minaccia di Trump di imporre dazi del 25% su tutte le importazioni canadesi se Ottawa non avesse fermato il flusso di immigrati irregolari e di farmaci che creano dipendenza come il famigerato “fentanyl”.

L’avvertimento si estendeva anche al Messico e, al di là del merito delle accuse di Trump, serviva a preparare il campo a una guerra tariffaria con l’obiettivo ufficiale di ridurre il deficit commerciale che gli Stati Uniti registrano nei confronti dei due paesi confinanti. Il Canada esporta verso sud ingentissime quantità di petrolio e gas naturale, ma anche, tra l’altro, di acciaio e alluminio, così che i nuovi scenari ipotizzati da Trump avevano messo in agitazione i poteri forti canadesi. Trudeau da parte sua, aveva provato a limitare i danni recandosi personalmente alla residenza di Trump in Florida, ma senza ottenere risultati.

La Freeland, invece, il 16 dicembre aveva deciso di dimettersi provocando il maggiore danno possibile al governo di centro-sinistra di cui era parte. Senza dubbio in accordo con gli ambienti più allarmati del business canadese, la vice-premier aveva denunciato come irresponsabili le nuove proposte economiche di Trudeau improntate a un molto relativo aumento della spesa sociale. A suo dire, ciò che serviva al Canada in vista della imminente “guerra dei dazi” con Washington era nient’altro che rigore fiscale.

Il primo ministro non si sarebbe mai ripreso dalla disputa interna e il venir meno del sostegno della maggioranza dei deputati del suo partito ha fatto il resto, assieme alla recente sconfitta dei liberali in elezioni suppletive in due distretti di Toronto e Montréal considerati loro roccaforti. La realtà davanti a Trudeau è stata poi suggellata da tutti i sondaggi, che vedono il Partito Conservatore, oggi all’opposizione, nettamente in vantaggio su quello Liberale. Tra le rilevazioni più recenti si può citare quella dell’istituto Nanos, secondo il quale il primo sarebbe attestato attorno al 47% dei consensi, contro il 21% del partito di Trudeau.

Le tensioni politiche in Canada sono state alimentate in queste settimane anche dai ripetuti “inviti” di Trump rivolti tra il serio e il faceto a questo paese per diventare il 51esimo stato americano. Nella visione trumpiana, il deficit della bilancia commerciale degli USA con il Canada, pari a 75 miliardi di dollari nel 2024, rappresenterebbe un gigantesco “sussidio” all’economia di quest’ultimo paese che Washington non si può più permettere. Da qui i riferimenti del presidente eletto alla possibile annessione del Canada, ovvero il secondo paese più esteso del pianeta che dispone di enormi e diversificate risorse energetiche e minerarie.

Che si prenda sul serio o meno, la “proposta” di Trump ha innestato un elemento gravemente destabilizzante nella già caotica politica canadese. Tanto più che il prossimo presidente americano ha collegato esplicitamente la possibile unificazione con il Canada al conflitto con Russia e Cina, nonché, di conseguenza, alle politiche ultra-nazionaliste che sembra intenzionato a rilanciare nel suo secondo mandato. Il messaggio ha a che fare in altre parole con un riallineamento a favore degli interessi strategici ed economici americani per far fronte alla “minaccia” russo-cinese attraverso la promozione di politiche non solo protezioniste, ma improntate anche al militarismo spinto e alla drastica riduzione della spesa pubblica per favorire la competitività del capitalismo a stelle e strisce.

Questi elementi cruciali dell’agenda di Trump e le ripercussioni che avranno stanno già influenzando le dinamiche politiche di molti paesi occidentali, dalla Francia alla Germania fino all’Austria e appunto al Canada, creando i presupposti per l’installazione di governi spostati sempre più verso destra. Le pressioni che hanno condotto alle dimissioni di Trudeau vanno lette appunto in questo contesto. Gli ambienti di potere canadesi ritengono che il premier liberale e il suo governo debbano farsi da parte per lasciare strada a un esecutivo, guidato dal Partito Conservatore dell’ultra-populista Pierre Poilievre, che persegua le stesse politiche che si prospettano oltre il confine meridionale, imprescindibili per portare il capitalismo canadese su un piano di competitività simile a quello americano.

Il processo politico innescato in Canada dal declino e dalla caduta di Trudeau è peraltro simile a quello che ha creato il “fenomeno” trumpiano. Ovvero, il fallimento dei governi “liberal” ha facilitato l’emergere di una tendenza populista in grado di intercettare il consenso di parte delle classi più colpite dalla crisi economica di questi anni e sempre più estranee alle fissazioni “woke” di una sinistra o presunta tale che ha abbandonato da tempo qualsiasi impegno in ambito sociale. Un flop, quello canadese, che riguarda non solo il partito di Trudeau, ma anche il Nuovo Partito Democratico (NDP), teoricamente più a sinistra e partner di fatto dei liberali negli ultimi cinque anni.

Da questa corsa a destra determinata dalle scosse della rielezione di Trump non intende evidentemente sottrarsi lo stesso Partito Liberale canadese, che, in maniera prevedibile, finirà per scegliere un nuovo leader che sia in primo luogo gradito al business indigeno. I nomi dei favoriti in circolazione confermano questa realtà. Uno è quello dell’ex governatore della banca centrale canadese e di quella del Regno Unito, Mark Carney, immediatamente identificabile con politiche di rigore totalmente asservite ai grandi interessi economici e finanziari. L’altra favorita è la già citata Chrystia Freeland, con legami familiari al nazismo e probabilmente l’esponente politico canadese maggiormente impegnato nella campagna anti-russa e a sostegno del regime ucraino.

Le dimissioni di Trudeau non comportano automaticamente lo scioglimento anticipato del parlamento federale, anche se elezioni prima della scadenza naturale della legislatura, prevista per il 20 ottobre prossimo, sono quasi certe. Il premier uscente ha chiesto la sospensione delle attività parlamentari fino al 24 marzo, quando i principali partiti di opposizione, come hanno già annunciato, presenteranno una mozione di sfiducia contro il governo che andrà quasi certamente a buon fine. Se così dovesse essere, il voto anticipato potrebbe tenersi a primavera inoltrata, con un nuovo leader alla guida del Partito Liberale e del governo di breve durata che succederà a quello di Trudeau.

La vittoria dei conservatori e, salvo sorprese, la nomina a primo ministro di Poilievre incontrerà l’approvazione di Trump, vista l’affinità tra i due, ma il possibile allentamento delle tensioni tra USA e Canada potrebbe essere di breve durata. Il conflitto esploso ancora prima dell’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca va infatti al di là degli orientamenti politici di Ottawa, visto che si collega a fattori oggettivi radicati nei rispettivi modelli economici. Da considerare ci sono anche le forti differenze tra le varie province canadesi, alcune delle quali, ovvero le più dipendenti dalle risorse energetiche e dal mercato americano, già sul piede di guerra alla sola ipotesi di misure da adottare come ritorsione contro i dazi minacciati da Trump.

La fine della carriera politica di Justin Trudeau consegna in ogni caso alla storia uno degli esperimenti più ipocriti e degenerati della “nuova sinistra” occidentale. Arrivato al potere per la prima volta nel 2015 con poche credenziali oltre al fatto di essere figlio di uno dei più influenti politici della storia canadese, Trudeau aveva beneficiato dell’estremo discredito in cui versavano i conservatori dopo un decennio di governi del primo ministro Stephen Harper.

Le stesse ragioni, oltre all’implementazione di limitate misure moderatamente progressiste, avevano garantito a lui e al suo partito il successo anche nel 2019 e nel voto anticipato del 2021. In declino ormai da tempo, Trudeau ha pagato un’involuzione autoritaria inaugurata almeno dalla gestione dell’emergenza COVID e, soprattutto, il peggioramento del clima economico seguito alla disastrosa avventura ucraina con l’impennarsi di inflazione e tassi di interesse. La vittoria di Trump a novembre e il conseguente riallineamento delle classi dirigenti occidentali ha alla fine assestato il colpo di grazia all’ex astro nascente della politica canadese, diventato ormai un fardello insostenibile anche per il suo partito.

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