L’annuncio del primo ministro israeliano Netanyahu circa l’imminente apertura di un nuovo fronte di guerra al confine settentrionale con il Libano è prima di tutto un tentativo di districare lo stato ebraico dal pantano, senza evidenti vie d’uscita, in cui si è infilato con l’intensificarsi dell’aggressione militare a Gaza. Dell’esplosione di un conflitto ad alta intensità con Hezbollah si parla da mesi, ma nelle ultime settimane il livello dello scontro tra le due parti ha fatto segnare una pericolosa escalation, mettendo ancora di più sotto pressione il regime di Tel Aviv.

 

Mentre nella striscia nessuno degli obiettivi israeliani è stato raggiunto dopo otto mesi di massacri, è estremamente improbabile che una guerra in Libano produrrà risultati migliori. L’obiettivo di Netanyahu potrebbe essere perciò di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto che minaccia di allargarsi a buona parte del Medio Oriente. L’amministrazione Biden ha però avvertito che la scelta di cercare uno scontro a tutto campo con Hezbollah non porterebbe alcun beneficio e, anzi, peggiorerebbe la situazione in termini di sicurezza per Israele.

Netanyahu si ritrova tuttavia a dover rispondere ai circa 100 mila coloni evacuati dalle aree di confine con il Libano, a cui da tempo era stato promesso di poter tornare nelle proprie abitazioni. Hezbollah sta evidenziando inoltre una progressiva maggiore intraprendenza nel colpire obiettivi israeliani. Dall’altro lato, le forze sioniste sono sotto stress per via dell’efficace resistenza di Hamas e degli altri gruppi armati palestinesi, essendo costrette a suddividere gli sforzi tra Rafah e il nord della striscia, dove le perdite continuano a essere ben superiori a quelle che si leggono nelle cifre ufficiali.

Martedì era circolata comunque la notizia che il governo britannico aveva avvertito quello di Beirut a prepararsi a un attacco israeliano su vasta scala. Notizia poi appunto seguita dalle dichiarazioni minacciose di Netanyahu. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, ha però smentito che l’informazione da Londra sia arrivata come riportato dalla stampa. La circostanza ha tutta l’aria di un’operazione di propaganda per convincere gli ambienti di governo del Libano a premere su Hezbollah per abbassare le tensioni. Il “Partito di Dio” continua invece a sostenere che la de-escalation avverrà solo quando Israele cesserà le operazioni militari a Gaza.

Tutto ciò riconduce ai tentennamenti dei vertici militari e politici israeliani riguardo un’offensiva contro Hezbollah. Il partito-milizia sciita libanese dispone infatti di un arsenale bellico e di capacità di gran lunga superiori a quelle di Hamas e, soprattutto, superiori a quelle che aveva potuto mettere in campo nella guerra del 2006 contro Israele, finita molto male per lo stato ebraico.

Esponenti di spicco di Hezbollah hanno d’altra parte in questi giorni ribadito di essere pronti a una guerra aperta con lo stato ebraico, così come hanno messo in guardia Tel Aviv dalle conseguenze disastrose a cui andrebbe incontro Israele. Questa opinione sembra essere condivisa anche da molti commentatori ed ex ufficiali israeliani che, a differenza di politici e militari ancora in servizio, hanno espresso serie preoccupazioni per il coinvolgimento del loro paese in un secondo fronte lungo il confine settentrionale.

Dopo i recenti incendi seguiti nel nord di Israele agli attacchi lanciati con droni da Hezbollah, in molti sui media sionisti hanno messo in risalto la difficoltà dei sistemi di intercettazione in caso di simili incursioni dal Libano. Da un punto di vista più ampio, è un parere diffuso che una guerra con Hezbollah sarebbe virtualmente impossibile da vincere per Israele. Sulla rete privata Channel 12, ad esempio, l’ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, generale Giora Eiland, ha ammesso apertamente che le forze armate del suo paese “mancano delle capacità di sconfiggere Hezbollah”, per poi lasciare intendere che, se Israele dovesse dichiarare guerra al “partito di Dio”, finirebbe “sconfitto dal primo giorno”.

Vari analisti militari hanno sottolineato come Hezbollah sarebbe in grado di sostenere una guerra “di attrito” per un lungo periodo e, nonostante il chiaro livello di distruzione che il Libano dovrebbe sostenere, lo stato ebraico finirebbe invischiato in un conflitto di difficile soluzione, sulla linea di quanto sta accadendo a Gaza ma su scala ben più ampia.

Come anticipato all’inizio, è possibile che Netanyahu spinga per allargare la guerra con l’obiettivo di trascinare direttamente nel conflitto gli Stati Uniti, di fatto, almeno secondo il punto di vista di Tel Aviv, l’unica opzione per estrarre qualche risultato concreto da un conflitto che sta diventando disastroso. Anche se Washington condivide l’obiettivo teorico di indebolire l’asse della Resistenza mediorientale, è quanto meno dubbio che Biden, in piena campagna elettorale, abbia un qualche appetito per uno scenario di questo genere.

Israele punta probabilmente sul fatto che la lobby sionista controlla in larga misura l’apparato governativo di Washington e, con lo stato ebraico minacciato, la Casa Bianca difficilmente potrebbe tirarsi indietro. Va però anche considerato che l’eventuale intervento americano potrebbe non garantire il successo militare, come testimonia, tra l’altro, l’incapacità finora di mettere un freno alle operazioni nel Mar Rosso e contro lo stesso territorio israeliano degli Houthis yemeniti.

Resta quindi da capire fino a dove Netanyahu vorrà spingere la crisi, dal momento che, da un lato, la prosecuzione e l’allargamento della guerra sembrano essere l’unica soluzione per evitare il tracollo politico e, probabilmente, la resa dei conti con la giustizia, e dall’altro l’escalation dello scontro militare senza una exit strategy percorribile aggrava l’isolamento internazionale di Israele e minaccia la tenuta stessa del progetto sionista.

La tregua nel limbo

Netanyahu continua inoltre a fare resistenza sulla proposta avanzata lo scorso fine settimana da Biden per un cessate il fuoco in tre fasi nella striscia. Attorno al documento messo sul tavolo c’è stata un’accesa disputa che dipende in larga misura dall’equilibrismo a cui è costretto il primo ministro israeliano per tenere in piedi il suo governo. Il premier scommette cioè sul rifiuto della proposta di tregua da parte di Hamas, poiché un’intesa determinerebbe l’uscita immediata dall’esecutivo della componente fondamentalista della sua coalizione.

In altre parole, Netanyahu vorrebbe soddisfare le richieste della Casa Bianca per una pausa delle ostilità, ma allo stesso tempo e per le ragioni appena esposte non può permettersi di accettare un accordo che getti le basi per la fine della guerra. Il problema è che Hamas non intende accettare nulla di meno di un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle forze di occupazione da Gaza. Quello che desidera Israele è in sostanza un accordo in cui Hamas sottoscriva la sua stessa distruzione, ovvero la consegna di tutti gli “ostaggi” israeliani fatti il 7 ottobre scorso senza la garanzia che, subito dopo, il regime sionista non riprenda gli attacchi militari.

Questo dilemma impossibile da sciogliere rende per ora complicatissima una tregua e, d’altra parte, l’amministrazione Biden non sembra avere intenzione di andare allo scontro con la lobby sionista interna per convincere Netanyahu a desistere e mettere fine al genocidio. Il risultato è che Israele continua ad avere mano libera e a perpetrare stragi su stragi di civili palestinesi. L’ultima in ordine di tempo è il bombardamento avvenuto mercoledì di una scuola nella striscia dove l’agenzia ONU per i palestinesi (UNRWA) aveva allestito un rifugio per i profughi.

L’attacco ha sorpreso nel sonno i palestinesi che vi erano ospitati, causando almeno una trentina di vittime. Il massacro era stato preceduto di appena poche ore da un’altra incursione israeliana nel campo profughi di Maghazi, situato nella parte centrale della striscia, in seguito alla quale, secondo quanto riportato da Medici Senza Frontiere, ci sono stati almeno 70 morti e oltre 300 feriti.

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