Le previsioni alla vigilia del voto e la promozione incessante dell’immagine di leader super-popolare del primo ministro, Narendra Modi, sono state smentite clamorosamente dai risultati delle elezioni generali concluse in India nel fine settimana al termine di un complicato processo durato quaranta giorni. Il partito di governo BJP (Bharatiya Janata Party o Partito del Popolo Indiano) è rimasto in realtà di gran lunga il primo partito per numero di seggi conquistati nella camera bassa del parlamento federale (“Lok Sabha”), ma ha perso per la prima volta nell’ultimo decennio la maggioranza assoluta. Modi potrà comunque inaugurare a breve un terzo mandato, anche se solo grazie al sostegno di altri partiti compresi nella sua Alleanza Democratica Nazionale (NDA), con i quali il BJP si è presentato agli elettori.

 

È stato proprio il partito del premier a causare l’emorragia di seggi della coalizione governativa, scendendo dai 303 delle ultime elezioni del 2019 a 240. La NDA poteva invece contare complessivamente su 353 seggi nel parlamento uscente, sui 543 totali. I risultati finali gliene accreditano invece 283, appena undici in più della soglia necessaria a garantirsi la maggioranza assoluta. I risultati sono ancora più straordinari se si pensa che sabato scorso, alla chiusura dei seggi, gli exit poll attribuivano alla NDA una quota superiore rispetto al 2019. Modi e i leader del suo partito, all’inizio della campagna elettorale, avevano addirittura previsto un risultato superiore ai 400 seggi.

Sull’altro fronte, l’opposizione guidata dal partito del Congresso aveva messo assieme un’ampia coalizione ribattezzata con l’acronimo INDIA (Indian National Developmental Inclusive Alliance) che è riuscita a ottenere 223 seggi, anche in questo caso molti di più di quanto prospettavano i sondaggi e gli exit poll. Soltanto il Congresso ha quasi raddoppiato i seggi che deteneva nel parlamento uscente (da 52 a 99), nonostante avesse presentato propri candidati in circa 80 circoscrizioni in meno rispetto al 2019 per lasciare spazio a quelli dei partiti alleati.

La coalizione INDIA, guidata dal numero uno del partito del Congresso Rahul Gandhi, aveva studiato a tavolino una strategia elettorale basata in larga misura sulla denuncia delle politiche economiche e socio-culturali del BJP, responsabili dei persistenti altissimi livelli di disoccupazione, del crescente divario tra i redditi e della persecuzione della minoranza musulmana, nonché dell’erosione dei diritti democratici. Questa strategia ha avuto un certo successo nel limitare i margini di vantaggio dell’alleanza di governo, facendo inoltre emergere la vera faccia di questo paese dietro la propaganda di un’India in rapido sviluppo e proiettata verso un futuro florido da grande potenza.

La retorica del Congresso resta in ogni caso tale, visto che il partito storicamente di riferimento della borghesia indiana, sia pure con inclinazioni progressiste, era stato esso stesso lo strumento della liberalizzazione dell’economia domestica e, per questa ragione, pesantemente punito dagli elettori nel 2014 e nel 2019. Gandhi ha da parte sua affermato, dopo la pubblicazione dei risultati, che la sua coalizione potrebbe avere la possibilità di dare vita al prossimo governo.

Questa dichiarazione è da ricondurre principalmente al tentativo di capitalizzare politicamente l’esito del voto, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretata come un segnale ai partiti su base regionale presentatisi alle elezioni con il BJP ma che in passato avevano fatto parte di alleanze con il Congresso. Si tratta in particolare del Janata Dal-United (JDU) nello stato indiano del Bihar e del Telugu Desam Party (TDP) in quello meridionale di Andhra Pradesh. Assieme, i due partiti avranno 28 seggi, un numero cioè determinante per gli equilibri nel parlamento di Nuova Delhi.

Il forte calo del BJP e l’appannarsi della stella di Narendra Modi rappresentano in ogni caso segnali allarme per le classi dirigenti e gli ambienti del business indiani. Il primo ministro e il suo partito fondamentalista indù sono stati per un decennio e, con ogni probabilità, continueranno a essere lo strumento preferito per l’implementazione di austerity, privatizzazioni e politiche anti-sociali, nonché per il posizionamento dell’India nell’orbita strategica americana in funzione anti-cinese. I risultati del voto sollevano però perplessità sull’efficacia e le conseguenze di una condotta politica improntata all’estremismo religioso e alla criminalizzazione di fatto della componente musulmana della popolazione.

Una strategia divisiva che ha reso tossico il clima politico e sociale in India, col rischio di destabilizzare un intero paese già attraversato da tensioni sociali esplosive. Basti pensare al numero enorme di scioperi e mobilitazioni di varie categorie di lavoratori indiani negli ultimi anni, oltre alle ripetute e massicce proteste degli agricoltori contro le misure di liberalizzazione del settore agricolo volute dal governo Modi.

L’intensificarsi della retorica ultra-nazionalista e anti-musulmana del primo ministro e del suo partito ha prodotto in molti casi l’effetto contrario a quello voluto. Emblematico è il caso della circoscrizione di Faizabad, nello stato di Uttar Pradesh, il più popoloso di tutta l’India. Qui, Modi aveva presenziato lo scorso gennaio all’inaugurazione del tempio indù dedicato al dio Ram, costruito su un sito dove sorgeva una moschea risalente al 16esimo secolo e demolita oltre trent’anni fa da una folla di fanatici indù fomentati dai leader del BJP. L’evento era stato un elemento chiave della campagna del governo per la mobilitazione del fondamentalismo religioso per i propri fini politici. A Faizabad, però, il candidato del BJP è stato sconfitto e a livello statale il partito di Modi e la coalizione NDA hanno perso 26 seggi e quasi il 10% dei voti rispetto al 2019.

La configurazione e l’eventuale riassestamento del nuovo governo a Delhi avranno infine conseguenze anche sulla politica estera, rimasta peraltro quasi del tutto fuori dalla campagna elettorale. La questione è invece di estremo rilievo, visto il peso specifico dell’India nel quadro asiatico e non solo. Sotto la guida di Narendra Modi, questo paese ha intrapreso un percorso verso l’allineamento agli obiettivi strategici degli Stati Uniti nella regione, partecipando a molte iniziative dirette al contenimento della Cina. Una decisione che sta mettendo l’India, come altri alleati americani nell’area Asia-Pacifico, in prima linea nel caso di un conflitto con Pechino, il tutto virtualmente senza nessun dibattito interno, se non negli ambienti delle élites indigene.

Allo stesso tempo, il precipitare della crisi russo-ucraina ha impresso una relativa frenata a questa deriva strategica indiana, fino a consolidare la storica partnership tra Delhi e Mosca, soprattutto nell’ambito delle forniture militari. Quest’ultima opzione è stata per Modi in primo luogo una scelta di opportunità, legata alle occasioni apertesi per trarre vantaggio dalle sanzioni imposte dall’Occidente alla Russia.

Il mantenimento di una politica estera relativamente indipendente va però ricondotta, oltre che alla tradizione storica indiana, anche agli stimoli rappresentati dalla partecipazione alle dinamiche multipolari in atto, che hanno il loro baricentro proprio in Asia, evidenti dall’ingresso dell’India nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel 2017 o, più recentemente, dall’accordo decennale per la gestione del porto iraniano di Chabahar, affacciato strategicamente sul Golfo dell’Oman.

Questi fattori saranno quindi in cima alla lista delle priorità del prossimo gabinetto indiano e un Modi verosimilmente indebolito alla guida di esso potrebbe essere esposto a pressioni crescenti da parte di Washington. Lo stesso discorso varrà anche per il fronte domestico, con un’opposizione decisamente più agguerrita e i settori della società sfavoriti dalle politiche economiche dell’ultimo decennio ancora meno rassegnati allo strapotere dell’uomo forte legato a doppio filo agli ambienti più influenti del capitalismo indiano.

Per il momento, gli occhi saranno puntati sulle trattative politiche nel nuovo parlamento di Delhi e, in particolare, su quali “concessioni” il premier e il BJP dovranno accettare per convincere i partner minori di coalizione a garantire il loro appoggio al nuovo governo federale.

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