A un anno esatto dall’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” portata a termine da Hamas in territorio israeliano, la violenza dello stato ebraico sotto la supervisione del primo ministro criminale di guerra Netanyahu si sta allargando pericolosamente nella regione mediorientale. Oltre a decine di migliaia di morti, la gran parte dei quali donne e bambini, la guerra in corso ha provocato o sta provocando un terremoto strategico e gettato le basi della liquidazione definitiva, sia pure nel medio o lungo periodo, di un progetto sionista genocida che ha dimostrato a tutto il pianeta la totale illegittimità della propria esistenza.

Qualsiasi forma di giustificazione delle azioni di Israele dopo dodici mesi di atrocità contro la popolazione palestinese appare ormai insostenibile e solo negli ambienti più irriducibilmente filo-sionisti non è emerso ancora quanto meno il dubbio circa una risposta smisuratamente sproporzionata all’iniziativa militare di Hamas del 7 ottobre 2023. Chi fa parte ancora di questa minoranza continua oltretutto a ignorare gli elementi emersi nelle settimane e nei mesi successivi. Elementi che hanno smentito una versione ufficiale dei fatti costruita apposta per garantire al regime di Netanyahu la copertura politica necessaria a mettere in atto una strage con pochi precedenti nella storia recente.

 

Il primo riguarda la causa dei decessi registrati in quella data di dodici mesi fa. Continua a essere pratica comune tra politici, commentatori e stampa “mainstream” in Occidente attribuire a Hamas la responsabilità di tutti i circa 1.200 morti seguiti all’operazione del movimento di liberazione palestinese che controlla la striscia di Gaza. Oltre al fatto che il numero è stato in seguito rivisto al ribasso, una parte consistente dei decessi era stata causata in realtà dal fuoco indiscriminato delle forze israeliane mobilitate. Queste ultime agivano secondo la famigerata direttiva “Hannibal”, a cui i vertici dell’esercito “più morale del pianeta” ricorrono per evitare che i militanti palestinesi facciano prigionieri (“ostaggi”) israeliani, in seguito oggetto di scomode trattative e scambi con quelli palestinesi detenuti nelle carceri dello stato ebraico. Questa realtà non è il frutto della propaganda di Hamas, ma è stata ammessa e documentata anche da indagini svolte e pubblicate dalla stampa ebraica.

È chiaro che l’insistenza sulla natura barbara delle azioni di Hamas serviva e serve tuttora a giustificare una reazione come quella a cui si sta assistendo. La versione ufficiale non considera tuttavia un altro elemento cruciale, ovvero che la campagna genocida scatenata da Netanyahu subito dopo non è nata da quegli eventi, ma fa parte di un piano di pulizia etnica e di ulteriore impossessamento delle terre palestinesi esistente da tempo. Ciò conduce a una terza realtà che viene puntualmente trascurata: la conoscenza in anticipo da parte del governo di Tel Aviv delle intenzioni di Hamas. Anche in questo caso sono stati pubblicati documenti che dimostrano come Israele sapesse della minaccia incombente ma non avesse fatto nulla per contrastare l’offensiva degli uomini della resistenza palestinese.

A questo proposito, rivela molto più di quanto voluto il riferimento del presidente americano Biden all’11 settembre israeliano dopo una decina di giorni dall’operazione di Hamas. Proprio come l’11 settembre americano, l’evento di dodici mesi fa è stato infatti usato dal regime di Netanyahu come pretesto per attuare un progetto tutt’altro che nuovo, come peraltro esposto dallo stesso premier durante l’Assemblea Generale dell’ONU alla fine di settembre 2023. Netanyahu aveva mostrato in quell’occasione una mappa dove Israele occupava tutti i territori palestinesi. Dopo un anno, risulta chiarissimo l’intento di creare un “nuovo Medio Oriente”, anche se le dinamiche innescate potrebbero alla fine disegnare nuovi equilibri regionali non esattamente aderenti alle aspettative del regime sionista.

Una delle favole proposte in Occidente in merito al 7 ottobre 2023 è anche la natura improvvisa, inspiegabile e indiscutibilmente terroristica dell’azione di Hamas. L’operazione è al contrario il risultato di quasi otto decenni di violenze e sopraffazioni, condotte nel silenzio della comunità internazionale e che hanno gettato nella disperazione più assoluta un intero popolo. In un articolo pubblicato nel fine settimana dal sito Consortium News, il giornalista e scrittore John Wight ha paragonato il folle massacro israeliano in corso alla “rabbia scatenata dal proprietario di schiavi” contro questi ultimi dopo che “hanno osato ribellarsi e fuggire dalla piantagione”. Da ciò si comprende “il vero crimine dei palestinesi di Gaza”, continua Wight, ovvero il “rifiuto di restare al posto assegnato loro dal colonizzatore e oppressore”.

È semplicemente impossibile pensare di “tenere 2,2 milioni di persone confinate in una moderna riserva per 17 anni, controllarne l’accesso all’elettricità, all’acqua potabile e a tutti i bisogni della vita, negando oltretutto loro la libertà di movimento, la dignità, la speranza e il futuro, e non aspettarsi nessun tipo di resistenza”. Questo è in sostanza il contesto in cui è stato lanciato il “Diluvio di Al-Aqsa”, anche se nell’immediato era la risposta alle ripetute provocazioni israeliane avvenute durante il Ramadan del 2023 nell’area della moschea a Gerusalemme da cui l’operazione di Hamas ha preso il nome.

Sono molteplici le “verità” che dodici mesi di violenze indicibili sui palestinesi e, ora, sulla popolazione libanese hanno finalmente mostrato al mondo in tutta la loro evidenza. La più macroscopica è appunto la natura terroristica del regime sionista. Dall’operazione di Hamas del 7 ottobre scorso, diretta in larghissima parte contro israeliani in divisa, Netanyahu, i suoi alleati di governo ultra-radicali e i vertici delle forze armate hanno agito per infliggere in maniera deliberata una punizione di massa contro i civili, bombardando altrettanto intenzionalmente scuole, ospedali, università e infrastrutture. Ogni giorno, a parte una breve tregua lo scorso novembre, Israele ha operato per distruggere ogni singolo elemento della vita civile a Gaza, per poi replicare la stessa strategia criminale in Cisgiordania e, ancora di più, in Libano.

A Gaza, i dati ufficiali parlano ad oggi di oltre 41 mila morti, ma il numero è enormemente sottostimato. Già lo scorso giugno, la prestigiosa rivista medica The Lancet aveva pubblicato uno studio nel quale proponeva una cifra più realistica delle vittime di Israele, a detta degli autori attorno alle 186 mila. Da mettere in conto ci sono anche i decessi causati da malattie e fame, usate entrambe da Israele come armi per decimare la popolazione palestinese.

L’immagine di Israele come “democrazia” è un’altra delle vittime della guerra. Di fronte alla moderazione evidenziata per varie ragioni dai rivali regionali, a cominciare dall’Iran, lo stato ebraico ha agito invece da subito e come di consueto con mano pesantissima e al di fuori della legalità. Le violazioni di ogni norma del diritto internazionale sono talmente gravi da avere spinto la Corte Internazionale di Giustizia a istruire un procedimento di genocidio su iniziativa del Sudafrica, equiparando di fatto le azioni di Netanyahu a questo crimine.

L’aggressione israeliana ha mostrato però nel contempo l’inutilità della giustizia internazionale e l’impotenza nel fermare anche il più mostruoso dei crimini, come appunto il genocidio, malgrado le prove di ciò siano sotto gli occhi di tutti e continuino a rimbalzare giorno dopo giorno su TV e social media. La possibilità di Israele di calpestare impunemente ogni regola ha dato un colpo mortale a un sistema codificato nel quale, almeno in teoria, centinaia di milioni di persone confidavano per vedere risolte guerre, crisi e controversie internazionali. Tutto ciò nonostante la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta sia letteralmente disgustata dalla brutalità sionista e dalle stesse giustificazioni del regime di Netanyahu e dei suoi sostenitori.

Sono molte ancora le lezioni che i fatti di questi ultimi dodici mesi di guerra hanno impartito, anche se in alcuni casi hanno semplicemente avvalorato una realtà nota da tempo. Come ad esempio il completo allineamento tra Stati Uniti e Israele, nonostante le pretese dell’amministrazione Biden di volere una tregua a Gaza o la de-escalation dello scontro tra Tel Aviv e Hezbollah in Libano. Anche senza considerare le implicazioni strategiche dell’alleanza tra USA e Israele, il genocidio ha mostrato come quest’ultimo paese e la sua lobby tengano in pugno la politica americana, tanto da rendere di fatto impossibile un intervento efficace della Casa Bianca per fermare la strage o, addirittura, da far diventare reale la partecipazione di Washington a una guerra diretta contro l’Iran.

Ci sono per contro dinamiche, in prospettiva forse ancora più importanti, che il 7 ottobre 2023 ha innescato a sfavore di Israele. La distribuzione di una violenza così intensa e distruttiva per reprimere una lotta di libertà e resistenza è destinata innanzitutto a ritorcersi contro l’entità che ne è responsabile, esattamente come accadde con la barbarie nazista o il regime dell’apartheid in Sudafrica.

Su un piano più concreto, questo processo lo si osserva nelle condizioni che Israele sta incontrando sui vari fronti aperti nell’ultimo anno. I risultati che Netanyahu può presentare consistono essenzialmente nella strage di donne e bambini, ma dal punto di vista strategico il terreno sta fuggendo da sotto i piedi del regime sionista. A Gaza, per quanta devastazione la striscia debba continuare a sopportare, le forze di Hamas restano in buona parte intatte e i militanti del movimento di liberazione si stanno riorganizzando dopo il dirottamento di una parte delle risorse israeliane verso il Libano.

Anche qui la campagna di bombardamenti aerei sta facendo alzare rapidamente il numero di vittime e creando distruzione diffusa di edifici e infrastrutture, ma i tentativi di penetrazione via terra delle forze armate israeliane si traducono in perdite molto pesanti, che la propaganda sionista fatica a occultare. Lungo il confine libanese, così, i piani per ristabilire la deterrenza israeliana, se non di creare un’area cuscinetto tenendo lontano Hezbollah, rischiano di naufragare del tutto.

È tuttavia dal fronte iraniano che arrivano le principali minacce a Israele. Netanyahu ostenta sicurezza e aggressività nel promettere una ritorsione per l’attacco del primo ottobre scorso della Repubblica Islamica, ma le conseguenze di un’operazione di questo genere potrebbero essere disastrose anche e soprattutto per lo stato ebraico. A ricordarlo è stato anche un recente articolo di un giornale non esattamente filo-iraniano come il Wall Street Journal.

La testata americana ha confermato la versione delle autorità di Teheran circa i risultati dell’attacco di settimana scorsa, spiegando che i missili balistici lanciati dall’Iran hanno “saturato le difese aeree israeliane”. Se i danni sono stati in questo caso limitati, un nuovo attacco iraniano, avverte il Journal, “potrebbe avere conseguenze molto più serie”, soprattutto se gli obiettivi saranno “infrastrutture civili o aree residenziali densamente abitate”.

L’equazione insomma che il regime sionista intendeva modificare a proprio favore in Medio Oriente con i piani di guerra scatenati dopo il 7 ottobre 2023 potrebbe finire per ribaltarsi e produrre conseguenze rovinose per i suoi interessi e quelli dell’alleato americano.

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