Sono ore decisive per la situazione politica e militare tra Israele e l'Iran. Non c'è molto spazio per gli ottimismi: Netanyahu vuole la guerra e solo la sua estensione a tutta la regione, fino al Golfo Persico, può garantirli il consenso del quale ha bisogno per non veder cadere il suo governo e avviarsi verso un processo che finirebbe male per lui. Inoltre non può non raccogliere la sfida iraniana per non rendere nullo il consenso politico di cui gode in patria grazie alla guerra, che sembra essere avversa solo alle famiglie degli ostaggi, non alla popolazione nel suo complesso.

Da parte sua l’Iran non poteva e non può rimanere inerte davanti ai massacri di civili, alle invasioni e ai bombardamenti dei paesi sovrani che Tel Aviv esercita quotidianamente. Non poteva esimersi dal ristabilire una linea credibile di deterrenza, senza la quale le aggressioni israeliane continuerebbero impunite, mettendo a rischio la credibilità difensiva iraniana e il suo ordine politico interno. Insomma il terrorismo israeliano si appresta ad una nuova aggressione, ma l’Iran sembra in grado di limitare i danni e di reagire.

I media occidentali ripropongono la solita fake news che racconta di come cui gli USA chiedono moderazione; in realtà c’è l’incremento di forniture ed appoggi militari a Tel Aviv. Washington, benché su una guerra all’Iran troverebbe il consenso bipartisan dei candidati alla Casa Bianca, già impegnata pesantemente in Ucraina, non vuole far degenerare lo scontro con l’Iran in un conflitto globale, ma sa che quale che sarà la portata dell’attacco, Teheran risponderà. L’unico modo di fermare la guerra sarebbe bloccare le forniture ad Israele, imporgli il rientro dei suoi militari o mettergli uno stop al suo colonialismo. Quando mai. Biden muove due portaerei a garantire la copertura USA a qualunque porcheria di Netanyahu pur temendo che diventi controproducente per tutti. La tentazione di liberarsi degli Ayatollah è forte anche nei circoli politici e militari statunitensi, dunque con una mano dicono di rallentare e con l’altra accelerano.

Le incognite, comunque, sono molte e ognuna di esse ha in sé diversi elementi che sconsiglierebbero una ulteriore escalation. Ci sono aspetti militari, economici e politici da considerare.

Sul piano militare, le fonti concordano su una netta prevalenza di Israele che è dotata di un fortissimo ed efficiente dispositivo che poggia su una tecnologia avanzatissima, grazie agli USA. Eppure lo Stato ebraico è tutt’altro che imbattibile e se anche solo pochi missili dovessero raggiungere le principali città, produrrebbero un tale livello di perdite difficilissimo da superare e danni gravissimi per una economia già in sofferenza (ha subito due declassamenti in poche settimane da parte di Moody’s).

Anche l’Iran dispone di una capacità bellica di alto livello ma nell’impossibilità di una guerra a terra, dove il numero dei suoi soldati sarebbe soverchiante, l’unica vera minaccia ad Israele è rappresentata dai suoi 15.000 missili di crociera, dai droni di nuovissima generazione e, soprattutto, dai 3000 Khebair: missili balistici ipersonici a lungo raggio, con una gittata fino a 2mila chilometri e una testata enorme da 1500 chili.

A questo proposito va sottolineato come in questi giorni diversi missili lanciati da Iran ed Hezbollah abbiano colpito lo Stato ebraico, il che propone dubbi circa l’impenetrabilità garantita del sistema difensivo Iron Drome. Inoltre, per quanto Israele conti sull’intervento militare statunitense, la capacità di mantenere aperti i diversi fronti è tutta da verificare e non priva di costi. L’invio dei missili di nuova generazione dei quali Teheran dispone, congiuntamente ad attacchi da Libano, Irak, Siria e Yemen, darebbe luogo ad una simultaneità di attacchi che l’ombrello protettivo di Israele riuscirebbe a fermare in buona parte, ma non completamente. E per la forte concentrazione del suo territorio e dei suoi abitanti, se ne passassero anche solo una parte i danni sarebbero pesanti e l’invulnerabilità israeliana diverrebbe un racconto scaduto, con tutto quello che comporterebbe.

I riflessi economici della guerra tra Iran e Israele sarebbero immediatamente amplificati all’intero scacchiere internazionale ed è quello che più preoccupa le cancellerie occidentali. Teheran può controllare e bloccare lo Stretto di Hormuz, dove transita il 35% della circolazione mondiale del petrolio e se lo facesse vi sarebbero conseguenze forti su inflazione e borse, danni estesi all’economia occidentale e possibile crisi energetica a poche settimane dalle presidenziali statunitensi. Con l’embargo sul petrolio russo e le difficoltà ad arrivare all’intera fornitura di quello degli Emirati e dell’Arabia Saudita, la situazione si farebbe pesantissima. Il blocco parziale delle forniture alla vigilia dell’inverno in Europa farebbe schizzare in alto il prezzo del greggio e salterebbero tutti i piani energetici occidentali in un quadro nel quale le guerre, l’inflazione e la spesa fuori controllo scuotono già fortemente la sostenibilità economica. Ciononostante, gli Stati Uniti verrebbero comunque trascinati in guerra a fianco di Israele contro i loro stessi interessi nazionali.

Anche sul piano politico non tutto è semplice. L’estensione fino al Golfo Persico delle mire coloniali israeliane non sarebbe tollerabile nemmeno per la componente sunnita, ovvero Egitto, Giordania, Marocco e Algeria che non vogliono certo uno Stato israeliano così esteso e potente. Si ritiene che le monarchie del Golfo potrebbero invece vedere di buon occhio una sconfitta iraniana e, con essa, un ridimensionamento del mondo sciita, ma tutto sommato questo non gli gioverebbe, perchè con il possibile blocco dello stretto di Hormuz, sarebbero le prime ad essere danneggiate. Inoltre, la ricomposizione diplomatica tra Iran e Arabia Saudita e la comune partecipazione ai BRICS, potrebbe aver cambiato sensibilmente un quadro valido fino a pochi mesi fa e che vedeva i due paesi nemici tra loro e uno alleato di Mosca e l’altro di Washington.

Una risposta spropositata di Israele comporterebbe non pochi problemi all’Occidente, al punto che il presidente Macron ha già proposto di fermare le forniture belliche a Tel Aviv per cui Netanyahu gli ha risposto di “vergognarsi”. Ma il Presidente francese prova ad allinearsi all’opinione pubblica mondiale, che considera ormai Israele uno Stato terrorista specializzato in assassinii mirati e di massa, privo di ogni regola etica e di adesione giuridica alle norme del diritto di guerra, che ordina di proteggere civili, feriti, malati, prigionieri di guerra, internati, naufraghi, personale sanitario e personale che fornisce assistenza spirituale. Uno Stato che viola sistematicamente il Diritto Internazionale, i codici di guerra, il Diritto umanitario, la Carta dell’Onu ed ogni altra convenzione internazionale che regola i principi etici e giuridici della comunità internazionale.

L’incriminazione per crimini di guerra e genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia, l’ira delle Nazioni Unite alle quali Netanyahu ha risposto dichiarando il suo Segretario Generale “persona non grata” ha posto la reputazione internazionale di Israele ai minimi termini. Ma senza il sostegno totale dell’Occidente, particolarmente di Stati Uniti, Gb, Francia e Italia, Israele sarebbe costretta a rinunciare ai suoi sogni espansionistici e coloniali e si troverebbe obbligata a ricercare una soluzione politica con i palestinesi e gli altri paesi arabi circa territorio, risorse e commerci e a rispettare le regole del Diritto Internazionale.

Lo stato israeliano è oggi ai margini della comunità internazionale e questa è l’ennesima macchia per gli Stati Uniti, che succubi del controllo sulla politica, sulla finanza e sui media della lobby ebraica che s’intreccia perfettamente con la dimensione imperiale propria degli USA, garantiscono a Israele sostegno incondizionato, incuranti della fine di ogni credibilità etica e politica davanti alla storia.

Di mediazioni e di pace l’Occidente non parla, sperando di incassare i dividendi dell’attacco all’Iran senza doverne pagare il costo, come nella più classica delle guerre per procura. Quello che emerge sul piano strategico, con questa ennesima crisi, è l’assoluta incapacità dell’impero anglosassone di esercitare un ruolo di governance internazionale, sia perché latore di destabilizzazioni e guerre funzionali alla sopravvivenza del suo dominio unipolare, sia per la perdita di rilevanza ed autorevolezza internazionale di fronte a qualunque Paese ed in qualunque scenario. Pare che la questione sia solo il quando e il dove e non certo il se dell’attacco israeliano. Ma mai come in questo caso, sarà l’insieme dei dettagli a stabilire il corso degli eventi e mai come stavolta i miti rischiano di cadere nella polvere.

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