Se i guai legali in cui è invischiato Donald Trump possono rappresentare un qualche problema in termini di consensi elettorali, di certo non lo sono per un lungo elenco di ultra-facoltosi finanziatori che, da Wall Street, vedono l’ex presidente repubblicano come l’opzione più gradita per i prossimi quattro anni. Un articolo pubblicato questa settimana dalla testata on-line Politico ha evidenziato come le riserve espresse in seguito al tentativo di ribaltare l’esito del voto nel 2020 si stiano progressivamente dissolvendo man mano che la prospettiva di un ritorno alla Casa Bianca di Trump si fa più concreta.

 

L’autore del pezzo spiega come gli alti dirigenti di alcune delle più influenti banche e società di investimenti americane erano stati spesso tra i più accesi critici della campagna promossa dall’entourage di Trump per cancellare la vittoria di Joe Biden quasi quattro anni fa. L’assalto all’edificio del Congresso del 6 gennaio 2021 per fermare la ratifica del passaggio di consegne alla guida degli Stati Uniti era stato un ulteriore motivo di rottura per molti “CEO” di Wall Street.

Tutto ciò sembra ora invece dimenticato. Il fondatore della compagnia Point Bridge Capital con sede in Texas, Hal Lambert, da tempo promotore della causa “MAGA”, ha riassunto l’attitudine di molti suoi compari vicini al Partito Repubblicano, spiegando che di fatto praticamente nessuno di questi ultimi “credeva veramente che [Trump] fosse una minaccia alla democrazia”. Dove per “democrazia” si intende il sistema politico-economico-sociale americano controllato dai grandi interessi finanziari.

Qualsiasi riserva riguardo la personalità o le intenzioni di Trump sta quindi per essere messa da parte da coloro che sborseranno le cifre più ingenti per sostenere la sua campagna elettorale. Dopotutto, le priorità di Wall Street sono ben altre, come la prospettiva di una nuova ondata di deregulation e tagli alle tasse. Ovvero una ripetizione delle politiche economiche regressive implementate nei quattro anni della prima amministrazione Trump.

Tra coloro che sembrano essersi ricreduti sulle credenziali “democratiche” di Trump spicca Stephen Schwarzman, numero uno di Blackstone Capital, una delle maggiori società globali nel settore private equity e hedge funds, che gestisce patrimoni per oltre mille miliardi di dollari. Schwarzman aveva definito la rivolta dei sostenitori di Trump il 6 gennaio 2021 “un affronto ai valori democratici”. Dopo tre anni e mezzo dai fatti, scrive Politico, è invece “nuovamente uno dei più importanti alleati a Wall Street dell’ex presidente”.

Altri ancora starebbero valutando seriamente la possibilità di tornare a finanziare la campagna di Trump. Come il miliardario dell’hedge fund Pershing Square, Bill Ackman, che dopo l’assalto a Capitol Hill aveva chiesto le dimissioni immediate di Trump, o Ken Griffin del fondo Citadel. La decisione di questi e altri “investitori” americani potrebbe ribaltare gli equilibri finanziari della campagna elettorale in corso, che vede Joe Biden e i democratici per il momento in vantaggio su Trump e i repubblicani.

La comunità degli affari in generale non sembra dunque preoccupata né per i precedenti di Trump né per la recente condanna stabilita da una giuria popolare a New York nel caso del pagamento alla pornostar Stormy Daniels. Piuttosto, spiega ancora l’articolo di Politico, a Wall Street o nella Silicon Valley circolano malumori per le iniziative che i direttori degli organi di autorità dei mercati finanziari USA, nominati da Biden, starebbero valutando per limitare gli spazi di manovra delle compagnie private, ad esempio in termini di fusioni e acquisizioni. L’incidenza di queste misure, se mai dovessero essere adottate, sarebbe in ogni caso tutt’al più trascurabile, ma il business americano non accetta nemmeno il minimo vincolo alle proprie attività, soprattutto se esiste un’alternativa politica più favorevole.

Per promuovere quest’ultima e affondare qualsiasi ipotesi di regolamentazione, la tattica è solitamente di ingigantire la minaccia che incomberebbe sulla libertà d’impresa negli Stati Uniti, come se, in questo caso, il Partito Democratico stesse per lanciare una sorta di rivoluzione socialista. La presidente della lobby dei principali esponenti del mondo degli affari di New York (Partnership for New York City), Kathy Wylde, ha spiegato a questo proposito come i finanziatori repubblicani le abbiano confidato di essere più allarmati “per la minaccia al capitalismo dei democratici” che “per la minaccia alla democrazia rappresentata da Trump”.

È ovvio che sul fronte opposto i democratici non sono nella posizione di trarre vantaggi politici dall’approccio di alcuni colossi di Wall Street alla candidatura di Trump. Biden e il suo staff confidavano infatti che i finanziatori repubblicani che nella fase iniziale della campagna elettorale si erano schierati con candidati apparentemente più presentabili di Trump, come il governatore della Florida Ron DeSantis o l’ex ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley, optassero per il presidente in carica o, quanto meno, si astenessero dallo staccare assegni per l’ex presidente.

Ancora meno problemi per Wall Street rappresenta inoltre la retorica populista di Trump e le tirate contro poteri forti e “deep state” durante i comizi. La natura di Trump e la sua classe di riferimento non sono infatti in discussione, nonostante i toni a cui ricorre inevitabilmente negli eventi pre-elettorali. Nel passaggio più significativo dell’articolo di Politico risulta molto chiaro il calcolo dei donatori repubblicani in vista del voto di novembre.

Il già citato Hal Lambert di Point Bridge Capital fa notare come la comunità degli affari che tende ad appoggiare il Partito Repubblicano riteneva nel gennaio 2021 che la carriera politica di Trump avesse subito un colpo mortale, così come avrebbe dovuto accadere nel 2016 con la pubblicazione del cosiddetto “Access Hollywood Tape”. Da questi scandali Trump si è però poi ripreso e, con il rifiorire delle sue fortune politiche, sono tornati anche i finanziamenti dei sostenitori di Wall Street.

In altre parole, le denunce da parte di questi ultimi della rivolta del 6 gennaio 2021 non erano motivate da un reale scrupolo democratico, ma dal timore che una mancata presa di posizione contro Trump avrebbe compromesso la loro immagine, con possibili ripercussioni negative sui loro affari. Perciò, quando Trump, anche grazie a Biden e al Partito Democratico, si è riabilitato politicamente diventando il favorito nella corsa alla presidenza, quegli stessi miliardari che meno di quattro anni fa sembravano averlo liquidato hanno fatto marcia indietro, privilegiando le prospettive di profitto ai turbamenti democratici generati da un suo eventuale secondo mandato.

Come già accennato, nemmeno la sentenza di primo grado già arrivata nel processo a Manhattan ha scoraggiato i finanziatori repubblicani “pentiti”. Nell’ultimo mese, infatti, la campagna di Trump ha incassato 141 milioni di dollari in donazioni, di cui quasi il 38% arrivati dopo il verdetto di condanna emesso il 30 maggio scorso.

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