La proposta di tregua a Gaza presentata dall’amministrazione Biden e appoggiata a inizio settimana dal Consiglio di Sicurezza ONU continua a essere ostaggio delle contraddizioni all’interno del gabinetto Netanyahu e degli equilibrismi della Casa Bianca per cercare di gestire una crisi ormai quasi del tutto fuori controllo. Mentre il segretario di Stato americano, Antony Blinken, è impegnato nell’ennesimo tour mediorientale, ufficialmente per promuovere lo stop alle armi nella striscia, il conflitto minaccia di allargarsi, travolgendo i negoziati diplomatici, dopo l’assassinio da parte di Israele di un comandante di altissimo livello di Hezbollah in Libano e la reazione militare più massiccia scatenata dal 7 ottobre scorso dal “Partito di Dio”.

 

Subito dopo il voto al Palazzo di Vetro di lunedì, Hamas aveva espresso parere positivo per l’iniziativa americana, per poi consegnare una risposta ufficiale nella giornata di martedì ai mediatori di Qatar ed Egitto. Il governo di Washington aveva però caratterizzato la mossa solo come un’azione che va nella direzione giusta, ma senza considerarla una risposta vera e propria, probabilmente per via di alcune modifiche apportate al testo in modo che aderisse ai principi fondamentali fissati dalla resistenza palestinese per poter accettare un accordo.

Questa circostanza è stata sfruttata da USA e Israele per attribuire la responsabilità della tregua interamente a Hamas, anche se sembra essere Netanyahu a vacillare su un’intesa che per lui e il suo governo potrebbe comportare seri rischi politici. Biden aveva infatti lanciato l’ultimo giorno di maggio la proposta per un cessate il fuoco permanente come un’iniziativa israeliana, lasciando intendere che da parte di Tel Aviv non vi fossero altre obiezioni al testo. Invece, Netanyahu ha rilasciato nei giorni successivi varie dichiarazioni non esattamente ottimistiche sulla tregua.

Ad esempio, il premier israeliano aveva immediatamente sostenuto che la Casa Bianca non aveva reso pubblici tutti i dettagli del documento, ma soprattutto la sua insistenza sull’obiettivo di liquidare Hamas era e continua a essere incompatibile con il raggiungimento di un accordo degno di questo nome. Non solo, questa doppiezza riguarda anche gli Stati Uniti. In apparenza, Washington sembra adoperarsi sinceramente per la fine della guerra, ma insiste, anche se in maniera meno esplicita di Netanyahu, a introdurre nella discussione almeno un elemento in grado di far saltare ogni trattativa.

Martedì, Blinken ha riconfermato l’impegno americano per la pace e la contrarietà a una soluzione militare. Allo stesso tempo, però, il capo della diplomazia USA ha posto come obiettivo la “sconfitta di Hamas” e la garanzia che il movimento di liberazione palestinese “in nessun modo o forma sia in grado di riprendere il controllo su Gaza”. È evidente che questa posizione sia incompatibile, oltre che con la realtà dei fatti, con un piano serio di pace, visto che una delle due parti in conflitto – Israele e Stati Uniti – punta a eliminare dall’equazione diplomatica l’altra parte con cui dovrebbe sottoscrivere un accordo. Da un altro punto di vista, secondo Washington e Tel Aviv, affinché l’intesa sul cessate il fuoco permanente vada in porto, Hamas dovrebbe sottoscrivere la propria condanna.

Il giochetto americano era già stato rilevato all’ONU dall’ambasciatore russo, Vassily Nebenzia, il quale in occasione del voto di lunedì si era chiesto quale accordo avesse accettato Israele, dal momento che i suoi leader continuavano a sostenere che la guerra sarebbe proseguita fino alla totale sconfitta di Hamas. La Russia si sarebbe poi astenuta sulla risoluzione proposta dagli USA, approvata con il voto favorevole di tutti gli altri 14 membri del Consiglio di Sicurezza.

Evidentemente anche Hamas ha compreso alla perfezione la trappola e ha sempre affermato che qualsiasi accordo deve includere la fine definitiva dell’aggressione militare israeliana, oltre che il ritiro delle forze di occupazione da Gaza e il ritorno degli abitanti della striscia alle loro abitazioni o a ciò che resta di esse.

Le “correzioni” che Hamas avrebbe apportato al testo americano sono perciò dirette a rimediare a queste mancanze e a evitare che Israele abbia l’occasione di riprendere la guerra una volta che gli “ostaggi” ancora a Gaza saranno rilasciati. Secondo quanto riportato dalla Reuters, il Qatar ha inoltre rivelato che nella risposta di Hamas ci sarebbero anche modifiche alle tempistiche di implementazione dei termini del cessate il fuoco.

L’intera questione viene chiaramente sfruttata come pretesto per spostare su Hamas la responsabilità dell’eventuale fallimento dei negoziati, ma il movimento islamista ha semplicemente ribadito i punti fermi a cui non può rinunciare, a meno di certificare il proprio suicidio. Ciononostante, la stampa sionista ha scritto nella serata di martedì che Hamas ha respinto la proposta americana, perché avrebbe modificato tutte le più importanti condizioni contenute nel testo. Che questa caratterizzazione sia a dir poco una forzatura appare abbastanza evidente e, infatti, i vertici di Hamas hanno subito smentito la notizia diffusa, tra gli altri, da Times of Israel e Reuters.

Il governo americano continua tuttavia ad assecondare le posizioni israeliane. Il segretario di Stato Blinken mercoledì ha incontrato il primo ministro del Qatar a Doha, dove ha spiegato che Hamas avrebbe apportato “numerosi cambiamenti alla proposta sul tavolo”, alcuni dei quali “attuabili, altri no”. Di conseguenza, secondo la logica di Blinken, per il momento “la guerra proseguirà a causa della risposta di Hamas”.

L’oggetto della risoluzione ONU prevede un piano suddiviso in tre fasi. La prima con una tregua di sei settimane, durante le quali dovrebbero essere scambiati donne, anziani e feriti prigionieri di Hamas con detenuti palestinesi in Israele. Inoltre, le forze di occupazione dovrebbero abbandonare le aree abitate della striscia, così da consentire il ritorno degli abitanti nelle loro case e la distribuzione di tutti gli aiuti necessari.

Nella seconda fase dovrebbe essere introdotto un cessate il fuoco permanente, accompagnato dallo scambio dei restanti prigionieri di Hamas con altri detenuti palestinesi, nonché il ritiro completo delle forze armate israeliane da Gaza. La terza parte dell’accordo prevede infine la restituzione a Israele dei corpi dei prigionieri di Hamas deceduti e l’inizio della ricostruzione della striscia.

Gli ostacoli che rimangono verso una soluzione diplomatica che fermi il genocidio palestinese sono complicati appunto dalle contraddizioni tra cui si muove il primo ministro israeliano. Per Netanyahu e la sua sopravvivenza politica è indispensabile che la guerra continui. In caso contrario, la componente ultra-radicale della sua coalizione, che desidera niente meno che la pulizia etnica di Gaza, sarebbe pronta ad abbandonare il governo. La posizione di Netanyahu si è già oltretutto indebolita nei giorni scorsi, con l’uscita dal “gabinetto di guerra” dei leader dell’opposizione Benny Gantz e Gadi Eisenkot.

D’altro canto, Netanyahu teme il precipitare della situazione militare, visto anche il fallimento di tutti gli obiettivi fissati all’inizio delle operazioni lo scorso ottobre, mentre deve gestire le (relative) pressioni americane per limitare al minimo le conseguenze negative della guerra per la stabilità della regione e gli interessi strategici di Washington. Per queste ragioni sono state messe in atto le già ricordate manovre che dovrebbero servire a scaricare su Hamas la responsabilità della mancata tregua.

Uno stop al conflitto che nella giornata di mercoledì è diventato ancora più problematico in seguito all’intensificarsi dello scontro al confine libanese. Martedì, Israele ha assassinato il comandante di Hezbollah, Taleb Abdullah, assieme ad altri tre membri del partito-milizia sciita. Per tutta risposta, quest’ultimo ha lanciato l’attacco più massiccio contro il nord di Israele dall’inizio delle ostilità a inizio ottobre.

Resta da vedere se l’escalation sfocerà in una guerra aperta, come d’altra parte già suggerivano tutti i segnali delle ultime settimane. In questo caso, le prospettive di pace a Gaza finirebbero con ogni probabilità per crollare, col rischio di trascinare il Medio Oriente in una conflagrazione generale dalle conseguenze difficilmente calcolabili.

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