di Tania Careddu

Definirne il numero è assai complicato, così come rintracciare i dati sulla composizione etnica: potrebbero essere tra i centoventi e i centottanta mila i Rom in Italia, ma certamente sono ventotto mila quelli che vivono in emergenza abitativa. Di questi diciotto mila nelle baraccopoli formali, diecimila (per il 90 per cento di cittadinanza rumena) negli insediamenti informali e circa mille e trecento, in prevalenza sinti, abitano in una cinquantina di microaree, collocate soprattutto nell’Italia centro-settentrionale.

Ma non è necessario avere contezza esatta delle persone Rom per stabilire che l’espressione architettonica delle baraccopoli - circa centoquarantanove sparse in ottantotto comuni italiani - informali o formali che siano, sia rappresentativa della discriminazione più estrema ai loro danni. E, nonostante la segregazione abitativa sia solo una delle tante facce di quella discriminazione e della violenza dei diritti umani, le evidenti ricadute della marginalizzazione spaziale e sociale e delle condizioni al di sotto degli standard sul godimento di tanti altri diritti fondamentali – all’istruzione, all’impiego e alla salute - la rendono la forma prioritaria di antiziganismo.

Soprattutto perché ha caratteristiche di criticità pervasiva e sistematica che non si limita a interessare solo i grandi centri metropolitani ma tocca un numero non trascurabile di piccoli comuni e perché fa i conti con una pratica fortemente lesiva, quella degli sgomberi - per di più forzati - e con un’esclusione della popolazione in questione dall’edilizia popolare.

Ed è la concretizzazione di un’immagine del contesto italiano sul tema, permeato di pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati, frutto di una scarsissima conoscenza delle comunità rom e sinte, che ha facilitato la reiterazione di preconcetti attraverso, anche, un linguaggio mediatico impreciso quando non palesemente dispregiativo. Da qui viene un ripetuto etichettamento, pure istituzionale, come comunità dedite al nomadismo, intriso di un lima di generale ostilità, fomentato altresì dalla retorica dell’odio promossa da esponenti di alcune fazioni politiche che ha attecchito  in termini di consenso elettorale.

Atteggiamenti profondamente dannosi nell’alimentare il circolo di esclusione e povertà in cui sono compressi, traducendosi, oltre che in visibili barriere all’accesso ai diritti primari, anche in un humus fertile per ulteriori derive violente e crimini d’odio e in un ostacolo all’attuazione di (poche) politiche volte all’inclusione.

Tuttavia, sebbene a denti stretti, nel 2016, stando ai dati raccolti dall’Associazione 21 luglio che ha redatto il Rapporto annuale 2016, si nota l’avvio di un apprezzabile cambio di tendenza: con un calo del 34 per cento, passando da duecentosessantacinque a centosettantacinque, di cui cinquantasette di grave entità, gli episodi d’odio, mediamente uno ogni due giorni, nei loro confronti sono diminuiti.

Sprizzano odio soprattutto il Lazio, il Veneto, l’Emilia Romagna e la Campania, che invece ha visto incrementare il numero di casi, mentre la più tollerante risulta la Lombardia. Viene da pensare, malauguratamente, che la diminuzione della violenza sia da ricercarsi nello spostamento della (tensione) attenzione verso i flussi di migranti e di richiedenti asilo e in un’acquisita generalizzata capacità di reazione agli insulti da parte delle comunità bersaglio. Augurandosi che non torni in vigore la legge del taglione.

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