di Tania Careddu

Che la parità di genere sia ancora tutta da venire è un dato di fatto. Ma che nella discriminazione delle donne intervenga, pure, l’identità religiosa è un elemento appena accennato e difficile da dimostrare. Succede, come testimonia la ricerca “Donne dimenticate: l’impatto dell’islamofobia sulle donne musulmane”, realizzata dalla rete europea ENAR, alle donne provenienti da paesi a maggioranza musulmana giunte in Italia.

Riconducibile, banalmente, alla presenza del velo, la segregazione è evidente, soprattutto, in ambito lavorativo, con due effetti: alcune accettano di non indossarlo, altre reagiscono autoescludendosi.

Attacchi verbali e fisici ed episodi di intolleranza contro di loro si verificano con una frequenza elevata, in media una o due volte a settimana nei confronti della stessa donna. Nonostante nel Belpaese non ci siano leggi che limitino l’uso di abiti o simboli religiosi nei luoghi di lavoro, a parte due rigurgiti rimasti tali, nel 2009 e nel 2011, che avrebbero voluto vietare l’utilizzo di burqa e niqad negli spazi pubblici, il velo scatena l’odio di chi si basa su pregiudizi antimusulmani: commenti sprezzanti o sguardi biechi in luoghi pubblici abbinati a tentativi di farlo togliere con la forza.

E se, sulla carta, quasi tutti i datori di lavoro negano di avere una qualche ostilità verso l’islam o il velo, di fatto, per le donne musulmane è difficile trovare un lavoro che prevede il contatto con il pubblico, giustificando l’esclusione con la poca apertura dei clienti e le conseguenti potenziali perdite economiche.

Fatto sta che, considerato anche che un insieme di fattori, quali una mancata padronanza della lingua italiana, una scarsa conoscenza delle istituzioni e il mancato riconoscimento di titoli di studio stranieri, spiegano gli svantaggi del caso, le donne musulmane registrano la percentuale più bassa del tasso di disoccupazione e quella più alta di inattività fra tutte le donne straniere presenti nello Stivale.

Il brutto però, è che mancano dati certi. Le forze dell’ordine non raccolgono  elementi sulla religione o sull’etnia delle vittime (prova ne sia l’inesistenza di alcuna segnalazione, negli ultimi cinque anni, riguardanti le donne musulmane) e così, a oggi, si registra una sola azione legale relativa a un caso di discriminazione sul lavoro.

Per fortuna, la Corte d’appello di Milano, ribaltando la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Lodi che aveva salvato il datore di lavoro giustificando la sua “preferenza (come) business oriented”, ha dato ragione a Sara Mahmoud. La ragazza col velo che voleva fare l’hostess.

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