di Tania Careddu

Più di dieci morti e centinaia e centinaia di braccianti (solo nell’ultimo anno), senza distinzione di nazionalità, sfruttati per far funzionare la filiera agroalimentare. Opaca e soggetta a scarsi controlli, dalla cui mancata trasparenza sono in pochi a uscirne indenni. Troppo riduttivo attribuirne le responsabilità al capolarato il quale, invece, uno dei tanti anelli della catena che permette alle aziende di comprimere i costi, è solo l’effetto della mancata trasparenza della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e del ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori (OP) che agiscono come moderni feudatari, dimostrando che il costo dei prodotti agricoli (vedi soprattutto arance) riduce in povertà i piccoli produttori e lascia marcire il made in Italy.

Le cause, piuttosto, sono da ricercarsi nella strutturalità del fenomeno, dal quale traggono diretto vantaggio proprio le aziende e interi settori dell’agricoltura: funzionale al sistema produttivo, lo sfruttamento è nelle mani dell’imprenditore. Di quello meno qualificato, chiuso in quel circolo vizioso tra prodotti sostituibili, scarsa qualità e innovazione inesistente, che risolve le proprie disfunzioni con l’uso di manodopera ricattabile. Evadendo tasse e contributi, l’uso degli attualissimi e abusati voucher ne è un esempio, spinge nel baratro l’intera economia, aziende virtuose comprese.

Una dinamica, frutto di un mercato selvaggio e abbandonato a se stesso, che coinvolge una lista di soggetti e pratiche: dai fornitori e subfornitori alla gestione dei trasporti delle merci dai magazzini fino alle piattaforme della grande distribuzione, dalla politica dei prezzi adottata a quella aziendale e di certificazione volte a verificare la condotta dei fornitori nei confronti dei lavoratori.

E’ l’estrema frammentarietà della produzione che non permette a nessuno di essere certo delle condizioni di lavoro e che rende difficile la ricostruzione dell’intera filiera, tenendo conto anche del fatto che produttori dai sistemi occulti e illegali agiscono fuori dal controllo delle aziende e che il settore logistico e del trasporto è caratterizzato da ampie zone d’ombra, humus favorevole alle infiltrazioni criminali.

E per effetto della crisi, secondo quanto si legge nel Rapporto Filiera Sporca. La raccolta dei rifugiati. Trasparenza di filiera e responsabilità sociale delle aziende, sul mercato vince chi fa il prezzo (spesso spia dell’illegalità) più basso e la leva su cui comprimere i costi è, da sempre, quella del lavoro.

E così, la maggior parte delle aziende opera in una zona grigia, dove l’evasione contributiva la fa da padrona: una giornata lavorativa costa circa sessant’otto euro al giorno ma a rispettare questo parametro sono in pochi; in genere, i lavoratori risultano formalmente assunti ma il compenso quotidiano scende sotto i cinquanta euro, con picchi al ribasso; le buste paga sono perfette ma i braccianti sono costretti a restituire una parte dei soldi percepiti; e ultimamente è diventata una prassi persino riprendersi i bonus Irpef di ottanta euro introdotti dall’attuale governo.

Il ricorso al lavoro nero, poi, è un meccanismo perfettamente oliato, incentivato dal sistema dei sussidi di disoccupazione: le cooperative agricole funzionano come agenzie interinali per i produttori e i commercianti ma anziché lavorare per loro, i braccianti sono utilizzati al nero da altre aziende, maturando le giornate contributive per il sussidio; al loro posto, però, nelle campagne di raccolta, le cooperative mandano forza lavoro straniera pagata a trenta centesimi a cassetta di raccolto. Totale: dieci o quindici euro al giorno.

E’ quanto succede nella zona di Mineo, territorio di aranci e centri per gli immigrati, dove richiedenti asilo non assumibili perché privi di permesso di soggiorno, sostituiscono la regolarità. E’ lì che si annida lo sfruttamento: in quelle zone grigie che nessuno riesce (vuole) tracciare.

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