di Rosa Ana De Santis

La sentenza della Corte d’Appello di Bologna boccia la richiesta avanzata dalla Procura dei Minori, che chiedeva di togliere ai genitori rom la figlia dodicenne che vive con loro in un campo alla periferia di Pavia e che non frequenta la scuola. Motivo addotto nella sentenza è che la condizione propria della vita gitana è quella di non andare a scuola e di vivere in un contesto di degrado qual è quello in cui si trova questa adolescente.

E’ senz’altro vero che la vita di questa piccola rom assomiglia a quella di molti altri suoi coetanei o bambini, costretti a elemosinare e a vivere randagi nelle strade delle nostre città, esposti alle peggiori nefandezze, incluso lo sfruttamento sessuale. Tutto nelle carte del tribunale ruota intorno al termine “pregiudizio”. Ma questi piccoli rom non scontano alcun pregiudizio all’interno della loro comunità.

Quello che questa sentenza omette è che il pregiudizio lo soffrono da parte di tutta la restante società che non vive né condivide quella condizione. E’ su questo passaggio che il tema slitta dal piano squisitamente giuridico a quello culturale e che, per entrare ancor meglio nel merito, offre un ulteriore spunto di riflessione sulla presunta neutralità e immunizzazione del diritto dalle contaminazioni di tipo particolaristico-culturale.

Affermare il principio che questa sentenza avalla significa innanzitutto inficiare quello di eguaglianza giuridica di tutti i minori di fronte alle Istituzioni e, in secondo luogo, accreditare come legittime tutte quelle tradizioni proprie di diverse comunità che ci siamo affannati a condannare sulle prime pagine dei giornali: dall’infibulazione al burka. Non sono anche quelli elementi propri di alcune culture? O l’argomento funziona solo in chiave anti-islamica forse perché i musulmani rappresentano una minaccia politica e territoriale peggiore rispetto agli zingari?

La sensazione è che questa sentenza sia uno scivolone che butta al vento fiumi e fiumi di parole - e poco altro - spese sull’integrazione e sul ruolo della scuola come strumento di supporto alla convivenza tra culture. Sembra che per gli zingari valga una sorta di extraterritorialità mentale, per cui ogni tratto della loro comunità è semplicemente giudicato come antagonista a ogni possibile forma ordinaria di civiltà. Difficilmente si parla di cultura o di culture gitane, più semplicemente si pensa che la loro “cultura o codice comportamentale” sia tutto ciò che la nostra società rigetta.

Una differenza che suona come una sottrazione generale e assoluta, come un concetto di umanità deteriore occultata nel pietismo del mito culturale. Questa sentenza, che all’apparenza sembra dire il contrario, non fa infatti che legittimare i più diffusi pregiudizi sugli zingari con un’aggravante di non riscattabilità dal degrado e della povertà per principio. Oltre a ciò,  avallare “per buoni e per meritevoli di rispetto” abitudini e comportamenti che sono lesivi della dignità umana e dei diritti fondamentali individuali costituisce un pericoloso precedente per non riconoscere quanto di immorale spesso sussiste in alcune culture e tradizioni.

La categoria della moralità è superiore a quella di qualsiasi uso e costume tradizionale e ogni cultura ha in sé dei tratti che non sono ammissibili per quei principi fondamentali di libertà e dignità che l’evoluzione del pensiero ha ormai assodato. Questo perché la cultura descrive ciò che gli uomini fanno in nome di miti, credenze e tradizioni, mentre la morale detta la norma di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. E’ per questo, ad esempio, che nell’antica Grecia era accettabile avere rapporti sessuali con minori e che ora tutto questo per noi è ripugnante pedofilia. Grazie all’evoluzione di conoscenza che la psicologia e la pedagogia hanno consegnato al sapere dell’umanità.

Qualcuno di facile tentazione al particolarismo giustificativo può dire che alcuni principi che a noi sembrano universali e assoluti, quali quelli del diritto liberale, siano anch’essi il frutto di una precisa e specifica cultura occidentale che però, a differenza di particolari etno-centrismi, sa essere inclusiva. Questo il dato cui i tifosi dell’ombelico etnico del pensiero dovrebbero arrendersi.

Un bambino rom continua a vivere la propria cultura, anche se viene obbligato ad andare a scuola. Ma andando a scuola non sarà usato dai genitori per mendicare, verrà aiutato nell’integrazione con gli altri bambini di qualsiasi cultura essi siano; saprà tutelarsi meglio, avrà l’opportunità soprattutto di conoscere quanto di diverso dal suo mondo esiste per scegliere come vorrà vivere e come vorrà diventare grande. La cultura più affascinante, se legata alla sola ereditarietà di sangue e famiglia e se non mediata mai da ragionamento e libera scelta, è la più odiosa prigionia dell’essere umano. Il peggiore strumento di vessazione. Un bambino rom a scuola aiuterà inoltre gli altri bambini a conoscere e non disprezzare per pregiudizio, ma ad avere un opinione secondo conoscenza.

Per questo la sentenza che in superficie sembra dare riconoscimento alla cultura rom è uno strafalcione involutivo mascherato da rispetto della differenza. Perché se la differenza significa meno diritti e meno opportunità non è degna di alcuna cultura; e uno stato moderno, che sul diritto e sulla morale ha costruito o dovrebbe costruire eguale dignità per tutti i suoi cittadini, senza declinazioni di religione e cultura, non dovrebbe dimenticarlo.

E infine, se la differenza diventa svantaggio non può essere per logica un valore culturale, perché è un fallimento della morale. Specie se a pagare per tutto questo sarà quella bambina che potrà non andare a scuola, perché gitana. A lei avremo insegnato che persino per principio, e non solo perché cosi vanno spesso le cose, la legge non è uguale per tutti.

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