di Rosa Ana De Santis

Può accadere nello stesso Paese di leggere su tutti i giornali la battaglia forsennata per la legge sul biotestamento, che vuole obbligarci a rimanere nello stato vegetativo persistente cronico, e due giorni dopo trovare in prima pagina la storia di una donna di Bergamo che, dopo 16 anni di lavoro in un’azienda, è stata licenziata perché in coma dal 2010, dopo esser stata colpita da aneurisma cerebrale. “Un intralcio alla produzione” ha scritto l’azienda e la Cgil di Bergamo ha denunciato la vicenda.

Solo in un Paese come l’Italia Può accadere tutto questo nel silenzio generale delle Istituzioni che fino a ieri erano ingaggiate nella crociata della vita. Incapace di analizzare fatti e vicende senza ricorrere alla mistificazione e alla retorica, inadatta storicamente alla durezza della coerenza e soprattutto sempre più in ostaggio del mito degli imprenditori sultani e di una deregulation selvaggia che sta smantellando lo statuto dei lavoratori.

Non c’è traccia di condanna da parte di tutti coloro che ieri in Parlamento hanno consentito che passasse la legge del biotestamento così come è. Si deve rimanere per forza in quello stato, anche contro la propria volontà, per poi avere un trattamento discriminatorio e disumano come quello riservato a questa giovane mamma e ai suoi familiari, nel metodo e vedremo se anche nel merito.

Il Ministero del Lavoro, per lo meno, ha preso la parola: «Abbiamo già disposto, tramite la nostra direzione generale per l'attività ispettiva - ha spiegato Nello Musumeci, sottosegretario con delega alle Politiche sociali - una verifica dei fatti denunciati dalla stampa. Al di là dei rispettivi obblighi contrattuali, la condotta dell'azienda appare improntata a un rigido formalismo e a un rigore assolutamente inopportuni e inadeguati alla tragedia che ha colpito la sfortunata dipendente».
Musumeci ha anche spiegato che la «dignità della persona viene prima di ogni profitto d'impresa» e ha suggerito alla dirigenza dell'azienda di fare pubblica ammenda: «Se fossi l'amministratore andrei a chiedere scusa ai familiari», ha detto il sottosegretario.

Si potrebbe partire da qui, certo, ma forse è bene volgere lo sguardo ad un’orizzonte più ampio. Sono diversi gli spunti di riflessione che questo caso dovrebbe restituire all’opinione pubblica e al dibattito mediatico generale. Un primo elemento è di natura squisitamente giuridica. Se si ammette il principio per cui una persona può essere licenziata con questa modalità e definita “un intralcio”, attraverso una letterina offensiva e denigratoria, cosa dobbiamo aspettarci per tutte quelle persone ammalate o in cura?

Quanti saranno poco efficienti rispetto agli standard di profitto imposti dai datori di lavoro? E chi li stabilisce questi standard? Basta pensare alla questione, tutta irrisolta, sui pazienti oncologici e i loro lunghissimi decorsi, fatti di terapie e follow up intensi. Persone che spesso non hanno una presenza costante sul posto di lavoro o quantomeno necessitano di permessi speciali per i controlli medici.

Un secondo spunto è di natura etico-morale. Se questo Paese ha deciso che lo stato vegetativo è indisponibile alla scelta individuale, quasi più della vita ordinaria che in effetti ciascuno di noi ha la facoltà di togliersi attraverso il suicidio, allora non può non intervenire su un caso di questo tipo che rappresenta un abuso clamoroso, peraltro aggravato dal fatto che il licenziamento da parte dell’azienda è sopraggiunto prima che arrivasse da parte del  marito della signora la legittima richiesta di godere di tutte le ferie e i permessi maturati. Forse una mediazione con il marito, che in questo caso rappresenta le istanze della moglie, sarebbe stato doveroso moralmente, prima ancora che con la legge alla mano.

In ultimo, c’è una questione di linguaggio, che è molto di più che una questione di forma e di burocrazia. E’ il segno di un approccio al lavoro, sempre più radicato e infiltrato, che non guarda più alle persone, al credito di anni di onorato servizio - come si diceva una volta - di questa giovane madre, un modo di consumare le persone e i loro diritti che non conosce più nemmeno le forme del pudore. E’ questa storia a restituirci un ritratto fedele della nostra società, molto più della corrida parlamentare che ha partorito il biotestamento nullo e fasullo così come sarà.

Il caso, per ora, lancia dei dubbi e offre una sola riflessione. Che qualsiasi battaglia per la vita significa molto di più che una collezione di precetti ideologici e confessionali di facciata con scarse indicazioni procedurali. Che questa situazione, così al limite delle norme, avrebbe dovuto scioglierla per prima la signora in coma se avesse potuto esprimere le sue volontà, in un senso o in un altro. Che la legge parla chiaro sulla malattia e la prolungata assenza di un lavoratore. Ma che si poteva agire in ben altro modo.

Se per il Parlamento quella donna è viva, viva come era viva Eluana cui venivano portati pane e acqua. Per l’azienda in cui ha lavorato lunghi anni quella donna è diventata addirittura un intralcio. “Meno” di una persona ammalata, “meno” ancora di una persona morta cui si concede ancora, anche nei luoghi di lavoro, l’umanità o l’intralcio di un addio.

 

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy