di Fabrizio Casari

L'azzeramento del Senato è stato sempre un progetto di Silvio Berlusconi, non è un mistero per nessuno. Progetto perseguito e mai raggiunto in virtù di una opposizione che tanto sul piano del contenuto come su quello del (sacrosanto) pregiudizio politico verso il cesarismo del cavaliere ormai disarcionato, era riuscita ad evitare il pasticcio. Ora però, con il nuovo cesarismo incarnato da Renzi, il progetto si azzeramento del Senato è di nuovo calendarizzato nei lavori delle camere, di nuovo al centro del tavolo politico.

Perché tanta fretta? Perché un governo di comparse e neofiti si ostina a spostare lo sguardo dai problemi economici e sociali di questo Paese per indirizzarsi invece sulle architetture istituzionali? Si è parlato spesso di “bicameralismo perfetto” per descrivere il disegno istituzionale delle assemblee legislative, definizione calzante. In effetti, come in ogni democrazia degna, non solo la divisione dei poteri è d’obbligo, ma il bilanciamento strutturale degli stessi, tramite un sistema di pesi e contrappesi, è elemento imprescindibile.

Lo è per evitare semplificazioni ed approssimazioni, per tenere insieme l’opinione e gli interessi generali; ma, soprattutto, per evitare scorciatoie autoritarie da parte di un potere che, in Italia in particolare, ha la spiccata e reiterata tendenza all’autoreferenzialità e la disponibilità all’abuso, la perenne tentazione della contrazione degli spazi di dialogo e interlocuzione in favore delle “maniere spicce”. Ad ogni epoca storica, in ogni fase politica, questa propensione nazionale a non guardare tanto per il sottile quando si tratta di legiferare e governare a difesa e sostegno degli interessi dei poteri forti la si è chiamata in modi diversi, ultimo quello della “governabilità”.

E qui si manifesta ulteriormente Renzi. La sua ossessione per la cancellazione del CNEL è preoccupante; dal momento che nessuno può pensare che i risparmi vengano dalla sua abolizione, non può però sfuggire il carattere simbolico che il capriccio contiene. Organo di rilievo costituzionale, il CNEL (Consiglio nazionale dell’ economia e del lavoro) è organo consultivo di Camera, Senato e Regioni. Esprime pareri - se richiesti - ed ha diritto all’iniziativa legislativa; vede presenti sindacati e associazioni e rappresenta un punto di analisi, una lettura della realtà socioeconomica, che tiene conto dell’insieme degli interessi dei diversi settori del Paese.

Con la stessa logica insita nel rifiuto della concertazione con i sindacati, il vanesio premier ritiene di poter silenziare tutti coloro che sono dotati di capacità di analisi, elaborazioni e proposte diverse e qualificate. Renzi soffre l’esistenza dei luoghi di riflessione, dal momento che passare dalle battute alle politiche non gli è congeniale. La sua elaborazione è talmente povera sul piano culturale che confrontarsi con chi è in grado di leggere i mutamenti sociali del paese gli risulta insidioso.

Nel ddl Renzi manca, come nel personaggio, un minimo di equilibrio. Quando si eliminano i contrappesi, i pesi diventano eccessivi. Eliminare una delle due camere non ha niente a che vedere con i risparmi e, comunque, la democrazia non è soggetta ad analisi dei costi. Abolire il Senato corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. La possibilità di trasformare il Senato nella Camera delle Regioni - idea dotata di una sua legittimità storica - non ha niente a che vedere con questo papocchio isterico, dal quale risulta chiaro che la sua funzione prevista è meramente decorativa.

L’unica certezza di sostanza è che il Senato secondo Renzi non può aprire bocca sul Bilancio; il che, diciamolo, non depone bene circa il ruolo. Insomma il sapore di un colpo di mano è forte. Più che lo snellimento dei processi legislativi (che normalmente giacciono molto più tempo alla Camera, sia detto) questa riforma del Senato manifesta piuttosto l’intenzione di limitare i poteri di controllo e d’intervento legislativo sugli atti di governo e sulle deliberazioni della Camera.

Oltre al danno, c’è la beffa, visto che lo smontaggio della Carta avviene in un contesto politico dove il Presidente della Repubblica decide chi governa il paese, il premier è insediato da una manovra di Palazzo e il Parlamento che deve votare le modifiche alla Costituzione è illegittimo, giacché eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Di ben altra legittimità politica ci sarebbe bisogno per procedere ad una modifica sostanziale dell’architettura istituzionale.

Il fatto che la Direzione nazionale del PD abbia appoggiato il progetto dell’ambizioso premier senza ricordarsi di aver bocciato identico progetto quando era farina del sacco berlusconiano, testimonia di come l’unica identità di quello che un tempo fu un partito di centrosinistra è la contrapposizione personale a Berlusconi, non una idea permanente della salvaguardia dell’architettura costituzionale della Repubblica.

La speranza è che gli intrecci d’interessi che si dipanano nei diversi schieramenti politici rendano impervia la salita delle truppe cammellate all’assalto della Carta. Il fatto stesso che Renzi minacci le dimissioni nel caso il suo disegno non si compia, quasi meriterebbe “a prescindere” che ciò avvenisse. Agitare lo spauracchio della palude della governabilità non basta: si rischia, per uscire dalla palude della governabilità senza sapere dove mettere i piedi, di sprofondare nelle sabbie mobili della democrazia.


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