di Rosa Ana De Santis

I centri di espulsione, dove vengono detenuti i migranti irregolari sine die, stando ai numeri attuali, nascono in Italia ufficialmente nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e, con una faccia e una sigla diversa, erano allora i CPT, sostanzialmente delle carceri per i quali l’Europa ci condanna in cui si sono trasformati oggi dalla legge Bossi - Fini in poi. Se le parole hanno un peso concreto, e ce lo hanno, averli declinati come luoghi di espulsione racconta molto di una linea politico e di un umore culturale diffuso o, ancor peggio, propagandato.

L’ex Ministro Kyenge, possibile candidata nella circoscrizione Pd centro-est, torna a parlare di immigrazione e di normativa arretrata e inadeguata, oltre che riprovevole in materia di diritti umani. La questione però, che finora sembrava di interesse politico solo per i sensibili alle politiche sui migranti, diventa adesso materia per tutti dato che al centro ci sono numeri. Spese stimate al minimo di 200 milioni l’anno per mantenere attive queste latrine più le spese per il rimpatrio. Soldi dei cittadini italiani dirottati per alimentare un meccanismo che di fatto non risolve il problema di nessuno, nemmeno dei fanatici in camicia verde.

Esiste infatti un problema a monte, di ordine politico-culturale, che ha partorito una legge di criminalizzazione, cui si aggiunge poi, beffando i suoi stessi propositori, un’incapacità di gestirne l’applicazione effettiva. Burocrazia, procedure, valutazioni errate e approssimative di iter di identificazione delle persone e dell’accompagnamento alla frontiera, hanno generato un autentico stallo.

E’salito da 60 giorni a 18 mesi il tempo medio in cui cittadini, che possono essere rifugiati, bambini o persone che hanno perduto il lavoro, sono costretti a rimanere dietro le sbarre e il filo spinato di malsane latrine. I rimpatri non sono aumentati, come osserva Kyenge, il che denuncia il flop clamoroso di strutture che avrebbero dovuto salvaguardare l’Italia dall’orda dei clandestini.

Il pensiero corre all’Europa dove l’Italia deve ripartire non per stendere i soliti cahiers de doléances, ma per rilanciare la propria geografia, strategica ma anche di estrema vulnerabilità, in una chiave propositiva visto che le nostre forze armate, le associazioni, i volontari e tanti enti locali sono invece attivi, efficaci e spesso straordinarie nelle manovre di salvataggio dei disperati del mare.

Dirottare i fondi su chi opera nelle procedure di riconoscimento, nell’analisi delle domande di asilo politico, nella gestione separata e dedicata per i minori che arrivano. Nel ripensamento di questi luoghi di “ospitalità momentanea”, sarebbe più onorevole chiamarli in questo modo. Peraltro, i flussi migratori sul lungo periodo lo documentano, seguono delle linee e l’Italia per molti è solo terra di passaggio. Come fu per gli albanesi degli anni Novanta che finirono tutti negli USA.

Oggi, infatti, gli immigrati a pieno regime in Italia, legalmente o meno, sono quasi sempre cittadini comunitari quindi a maggior ragione si tratterebbe di affrontare la questione sul teatro europeo e non sui promontori di Lampedusa. Sul cimitero del mare e nelle gabbie dove quasi sempre, come sempre, a finire schiava è l’Africa. Quel vero peccato originale che aveva l’ex ministro congolese Kyenge.


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