di Rosa Ana De Santis

C'é voluto un decreto per dire che l'Unità d'Italia é una festa. E ci siamo dovuti anche sorbire le proteste della Lega secessionista. Riuscire a trasformare una data simbolica così importante per il nostro Paese in un’opera buffa, irriverente e grottesca, non era un’impresa semplice; eppure questo è quello che accadeva da diversi giorni. Lo show della Lega, la Gelmini che vorrebbe tutte le scuole aperte, la Marcegaglia che striglia gli operai e poi La Russa, imbarazzato cantore obbligato del Risorgimento e della Bandiera. Un Arlecchino in commedia come degno ritratto di un paese frammentato, che non ha fatto molta strada dal tempo dei principati e dei piccoli Stati.

Anche Giuliano Amato, presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unita' d'Italia, ha suggerito di non pensare il 17 marzo come una giornata obbligata di vacanza, ma piuttosto come un momento di ricordo e di memoria dei valori del Risorgimento. Un giorno tutto da pensare: educazione civica per i giovanotti, lavoro per ricordare i sacrifici che ci chiede la crisi, quasi l’enfasi di un sacrificio collettivo per la nostra Patria in alto mare.

Nemmeno i versi più gonfi dell’enfasi poetica risorgimentale avrebbero intonato l’amor di patria con tanta retorica. Ci pensa invece questo governo allo sbaraglio, senza vocazione politica, privo di credibilità e promotore di un assalto alla dignità delle Istituzioni a dare lezioni. Soprattutto ci pensa la Lega, la madre di tutti i sentimenti di divisione, di pericoloso secessionismo, di avversione al tricolore, al buon senso e alla cultura, a dare le linee della ricorrenza. Una beffa, mal celata dalla necessità che persino il Ministro Gelmini sente di denunciare la sua iniziativa come autonoma e non appiattita alle volontà di Calderoli e dintorni.

L’idea che dare la vacanza di un giorno agli italiani sia un lusso che la nostra economia non può permettersi, suona poco credibile a chiunque abbia un po’ di buon senso. Chi vede la minaccia di una vacanza è invece chi pensa e legge la crisi guardando solo al portafoglio delle imprese, quando è piuttosto condiviso il dato che non sia stata la sofferenza della produzione a causare la crisi endemica che sta tagliando le teste,  soprattutto delle nuove generazioni.

Se si volessero commemorare sul serio i padri del Risorgimento si dovrebbe pensare a reintrodurre una materia tanto svilita come l’educazione civica. Si dovrebbe difendere la religione della Carta costituzionale sempre, oltre che volentieri. Non serve tanto ingegno a capire che è in atto un boicottaggio leghista della Festa che celebra l’Unita d’Italia e che il governo, incollato per sopravvivere alle camice verdi e lanciato nell’impresa di fare poltiglia dei principi fondanti della Repubblica e del sistema di pesi e contrappesi che la protegge, segue l’onda lunga di un conveniente suicidio della Patria.

Perché la storia è un fastidio, la Costituzione anche. E’ questo ciò che documenta la cronaca del peggior Parlamento della storia italiana. Dobbiamo togliere tutte le ricorrenze costose e poco adeguate al rigore etico che ci impone crisi. Questo è il monito della polemica delle ultime ore?

Se proprio la necessità di non interrompere la produzione dev'essere la priorità (e fa ridere di per sè) nei festeggiamenti delle ricorrenze, potremmo iniziare da quelle religiose che non appartengono a tutti, ad esempio. L’Immacolata Concezione dell’8 dicembre e l’Assunta in cielo del 15 agosto, tanto per cominciare.

E ancora, gli innumerevoli patroni cittadini, così scomodi per le aziende che hanno sedi in diverse città; e quel 6 gennaio dell’Epifania, così troppo italiano e legato alla storia delle streghe terrone del beneventano. E poi concludere mettendo le mani su tutte quelle del calendario civile. Di questo passo il Parlamento di Arcore proporrà di azzerare il 25 Aprile, che sebbene sia la giornata che celebra la ritrovata dignità nazionale, la cacciata dell'invasore straniero e dei fascisti suoi alleati, per alcuni è la ricorrenza di una liberazione che puzza un po’ di comunismo; e poi quel 2 giugno inutile, che forse racconta anche di una vittoria elettorale dubbia.

Iniziamo con questo 17 marzo, che proprio non possiamo permetterci nemmeno per un anno, perché quel giorno bisogna produrre rigorosamente in nome dell’Italia. Come se questo servisse alle sorti dei cassintegrati, dei precari cronici e dei disoccupati. Menzogne che riempiono di battibecchi il Consiglio dei Ministri, che dovrà prendere una decisione definitiva (immaginiamo la fervente discussione!!), e che occultano le reali ragioni della palude in cui stagna questo Paese. Delle soluzioni non c’è traccia, tantomeno in casa dell’opposizione che, chiusa in preghiera in attesa del papa (straniero?) non tira fuori mezza parola se non per divertirsi dello spettacolo di un governo che riesce a dividersi perfino su questo.

Se le scuole rimarranno aperte, sarà bene che la Gelmini preveda una lezione speciale per quelli che il tricolore lo bruciano e lo vilipendono quando lo vedono pendere sulle adunate del Carroccio. E sarebbe ancora meglio se questa si tenesse in Parlamento alla presenza di tutti gli onorevoli deputati, tra una votazione e l’altra. Mentre le fabbriche producono e gli uffici sono aperti. Forse l’emiciclo non sarebbe stipato, osiamo immaginare.

Questa festa la sua funzione l’ha comunque pienamente assolta. Non solo quella di mostrare le differenze e le divisioni che caratterizzano la nostra democrazia e che ne segnano tutta la debolezza, ma quella di ricordare che senza un processo calcolato e non spontaneo, dall’alto e similmassonico, gli italiani l’Italia unita non l’avrebbero fatta mai.

Togliendo ogni slancio di fiducia al programma di Cavour, oggi possiamo esser certi che mentre l’Italia c’è e rimarrà, gli italiani non esisteranno mai. Le fratture di cultura, di clima, di geografia e di psicologia e un comune tratto di facile affascinamento al padrone, sono condizioni che configurano il nostro come lo strano caso di un paese senza popolo.

Una massa che si lascia schiaffeggiare, depauperare, togliere ogni storia; che ammette ogni abuso delle Istituzioni senza avvertire la nausea di un oltrepassamento senza ritorno, irreparabile e pericoloso. Massa che si destreggia tra un tiranno e una liberazione importata. Con poche, pochissime eccezioni di eroismo patriottico, le cui ultime pagine vennero scritte nelle strade di Genova nel Luglio del ‘60.

Un paese condannato a non conoscere mai il gusto di una rivoluzione. Magari intendeva questo il mai troppo rimpianto Giorgio Gaber quando cantava di non sentirsi italiano. “Ma - concludeva - per fortuna o purtroppo lo sono”.

 

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