di Ilvio Pannullo

Lo chiamavano “Il Moralizzatore”. Sarebbe sicuramente un buon titolo per qualche biografia non autorizzata del nostro Ministro dell’economia, Giulio Tremonti, noto ai più per la sua celebre coerenza. Al Meeting di Rimini il buon Giulio si è esibito nuovamente in uno dei suoi show più collaudati: il professore di diritto tributario che, con la sua matita rossa, sferza - non a torto - gli economisti di mezzo mondo chiedendo un anno o due di silenzio. Ci va giù duro il ministro, che oramai sembra intenzionato a crearsi un format preciso, un’immagine da poter mettere sul piatto quando arriveranno i conti della crisi. Conti che qualcuno dovrà pur pagare. Cita Mandrake, Harry Potter, e una lunga fila di esempi “fino al mago Otelma” per dire che “le riunioni degli economisti sono proprio così e quello che colpisce di più è che nessuno di questi ha mai chiesto scusa, nessuno ha mai detto di aver sbagliato. Sbagliano sempre gli altri”. Tutto giustissimo, peccato solo che quando si decide di vestire i panni del Savonarola si deve dimostrare - appunto - una certa coerenza. Diversamente si scade nel ridicolo, con il rischio che siano banalizzate tutte le questioni morali o tecniche - di per sé sacrosante ed auspicabili - sollevate durante i ripetuti comizi. Per ironia della sorte, un attimo dopo aver paragonato l’intera categoria degli economisti ad una conventicola di maghi ciarlatani, il camaleontico alfiere di Papi rivela lui stesso la propria natura di chiromante. Nel suo intervento, infatti, il ministro ricorda di aver sempre pensato che “ci sarebbe stata una crisi causata dalla globalizzazione, ma era impossibile prevedere quando e come. Fa effetto - aggiunge caustico il ministro - che il coro continui”. La situazione appare paradossale perché, se da una parte le argomentazioni del ministro sono più che condivisibili, dall’altra è lo stesso speaker a mancare completamente di quella comune ed acclarata autorevolezza che sarebbe necessaria per risultare credibile al momento della denuncia.

Tremonti fa bene a discostarsi dalla categoria degli economisti. Lui rappresenta probabilmente l’alter ego dell’economista. E' infatti diventato celebre nell’unico settore della ricerca in cui l’Italia primeggia nel mondo: ricercare modi sempre più sofisticati per eludere, se non direttamente evadere, il fisco. "Io non sono un economista - afferma il ministro - e questa volta è una cosa che mi aiuta. Ma ho sempre pensato che a fine Novecento il mondo stava entrando in una curva diversa, colpa della globalizzazione che ha effetti positivi e negativi ". Una globalizzazione ora nemica, ma prima sostenuta.

Pochi, infatti, sembrano ricordare oggi il Tremonti delle cartolarizzazioni, della finanza creativa, della depenalizzazione del falso in bilancio. Il peso morale della colpa che il Ministro vorrebbe accollare ai soli teorici dell’economia dovrebbe, a ragion del vero, essere infatti equamente diviso con i giornalisti economici. Quelli, per intenderci, che per deontologia professionale avrebbero dovuto informare quel popolo, ancora ridicolmente considerato sovrano dalle carte costituzionali, su quanto stava accadendo e su quelle che sarebbero state le inevitabili conseguenze. In altre parole quelli che dovevano parlare e che invece sono rimasti in silenzio.

Il problema si acuisce dal momento che solo i giornalisti fedeli alla “Corporatocracy” hanno la visibilità e l’autorevolezza assicurata dalle grandi testate. In questo settore più che in altri l’informazione è infatti un fattore cruciale, assolutamente determinante. Stiglitz ha preso un Nobel per l’asimmetria informativa. Solo oggi, alla luce della crisi ancora in atto, è quindi possibile guardare la realtà per quella che è: negli ultimi vent’anni questi signori sono diventati un gruppo di galoppini che, lungi dall’essere incompetente, si autoglorifica mostrandosi, al tempo stesso, privo della minima capacità di poter esprimere un punto di vista critico.

Questa conclusione si può trarre dalla costatazione che l’intera categoria “ufficiale” dei reporter economici ha mostrato di accontentarsi, il più delle volte, di riportare in maniera pedissequa le dichiarazioni rilasciate dai dirigenti industriali e speculatori di Borsa, evitando sistematicamente di indagare e trarre le dovute conclusioni. Quanti si spendono per denunciare l’irragionevolezza dello status quo sono, invece, ghettizzati e trattati come matti cospiratori. Il risultato di questo paradosso si riassume con la rottura della fiducia, la stretta sui crediti, il crollo della produzione, il calo dei consumi, il drammatico peggioramento dei conti pubblici ed una disoccupazione galoppante. Un conto salato che sono in tanti a dover pagare.

In questo contesto, il Ministro non rinuncia a fare la parte della Cassandra: "Ci voleva un mago - dice - per capire in che giorno sarebbero crollati i mercati e di quanto, ma non per capire che la crisi sarebbe arrivata e che le cose non sarebbero rimaste come prima". "Io - sottolinea fiero - la crisi l'avevo prevista già dal 1995". E qui arriviamo al punto. Ad essere insopportabile in questi discorsi già sentiti è la boria con cui il fedelissimo Giulio se ne va in giro pavoneggiandosi della sua estraneità al sistema di quei “matti illuminati”, che adesso sembrano essere un motivo ricorrente nelle sue filippiche.

Lui vorrebbe apparire come uno del popolo, un po’ come il suo padrone. Ma come gli fece ricordare, molto saggiamente, anche D’Alema in occasione di una puntata di Porta a Porta, lui stesso tempo fa era un “illuminato”. Avendo in più riprese partecipato agli incontri del Bildiberg Group, in quell’occasione tacque. Il problema sta nel fatto che sono sempre troppo poche le persone che glielo rinfacciano.

Questa sua non estraneità al sistema, da lui oggi apertamente e pervicacemente osteggiato, può essere considerata, infatti, la prova che quanto dice è solo una copertura politica da utilizzare come scudo dalle feroci critiche che pioveranno quando i nodi verranno al pettine. Sta mettendo le mani avanti. E intanto mette la sua firma su quell’ennesima porcata ribattezzata come “scudo fiscale”. Uno scudo donato dallo Stato a qualunque evasore - e qui non si parla certo di spiccioli - dovesse trovarsi nell’inconsueta posizione di dover rendere conto della propria condotta illecita nei confronti dello Stato stesso. In un altro paese industrializzato sarebbe impensabile. Qui da noi è la regola e non l’eccezione; nella sostanza un’ode all’illegalità generalizzata.

Tutto questo, ovviamente, non lo rende credibile. E verrebbe da dire purtroppo, quando, nel suo intervento, il ministro dell'Economia ribadisce poi un concetto più volte espresso negli ultimi mesi: "Per uscire dalla crisi si è passati da una tasca all'altra, con una piccola differenza, che la tasca dei banchieri è dei banchieri, la tasca del governo è di tutti". "Dovrà esserci una riflessione" sulla scelta di aver aiutato le banche per uscire dalla crisi, aggiunge. Poi, parlando della spesa per la crisi che incide sul debito, sottolinea: "E' un rapporto che peggiora per salvare la spesa che si fa per salvare i signori delle banche". E cita un detto in inglese: "Salvate il popolo, non le banche".

Euforia e giubilo insomma: chi ci governa è uno buono, uno che ama il popolo. Già, ma sorge un interrogativo: quale popolo? Quello che esporta illegalmente capitali all’estero o quello che si suda il salario? Qualcuno dovrebbe chiederglielo.

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