di Mariavittoria Orsolato

Con i canonici sei mesi d’anticipo previsti dal contratto, lo scorso febbraio la Rai ha dato la sua disdetta a Sky per l’uso del criptaggio Nds, il che in parole povere significa che dal 1 agosto la piattaforma satellitare del magnate australiano Murdoch, non trasmette più il bouquet di canali Rai. Non è certo una notizia per cui strapparsi i capelli, ma il fatto che l’azienda di Stato compia una mossa del genere proprio nel momento cruciale di transizione al digitale, colora certamente di più l’argomento. A tutti quelli che pensano che dietro questo divorzio ci sia lo zampino del premier e del suo digitale terreste, il direttore generale di viale Mazzini, Mauro Masi ha preventivamente risposto: “Se avessimo accettato le loro pretese (quelle di Sky ndr), la Rai avrebbe fornito gratuitamente alla piattaforma satellitare a pagamento la “chiave” per accedere a tutta la nostra offerta ed utilizzarla come traino per le proprie attività commerciali connesse alla ricerca di nuovi abbonati. Proprio nel momento in cui, con le fasi di switch over e di switch off per la transizione al digitare terrestre, il pubblico televisivo diventa più contendibile”. Insomma se mamma Rai ha deciso di scendere dal satellite non è per fare un favore al biscione ma perché non vuole fare pubblicità gratuita ad un concorrente. Pare però che Sky pagasse profumatamente la gradita presenza del bouquet satellitare Rai: circa 400 milioni di Euro in sette anni, secondo l’ultima offerta rifiutata da viale Mazzini e, se la matematica non è un opinione, questi introiti avrebbero fatto molto comodo al dissanguato bilancio della tv di Stato, ormai stabilmente in rosso.

C’è poi un secondo non trascurabile problema in questa guerra satellitare: la Rai è un servizio pubblico; in quanto tale, ha l’obbligo di raggiungere tutte le case degli italiani, sia che questi abbiano il digitale terreste o meno e, viste le innegabili carenze del già obsoleto sistema di trasmissione, si presume che la tv di Stato dovrà sopperire alle eventuali mancanze. A questo ci pensa infatti TivùSat, il nuovo soggetto satellitare nato lo scorso 24 settembre dall’alleanza di Mediaset, La 7 e appunto Rai, che mira a combattere il colosso Sky sul suo stesso terreno di gioco: le trasmissioni saranno gratuite e l’apparecchio per l’installazione costerà 100 euro una tantum; in questo modo chi non fosse raggiunto dal segnale digitale terrestre potrà optare per questo satellitare made in Italy.

Al di là degli aspetti tecnici, quello che preme segnalare in siffatta operazione è l’inedita alleanza tra Mediaset e Rai, tradizionalmente contrapposte e ora unite nell’opposizione al magnate di Adelaide, in nome di una libera concorrenza che a molti però pare a senso unico. Se infatti si provano a fare due conti si scoprirà che per la Rai aver abbandonato la piattaforma di Sky è stato un costo più che un guadagno. Oltre i 50 milioni di introiti in meno l’anno, la Rai dovrà fronteggiare i costi del nuovo soggetto satellitare nella misura del 48%, dato che questa è la sua quota azionaria all’interno del progetto di joint venture con Rti e Telecom Italia Media. Senza contare che la Rai dovrà rinunciare a contratti pubblicitari a 6 zeri: dal momento che lo share è calcolato sulla base di tutte le piattaforme di trasmissione, l’uscita da Sky comporterebbe la perdita di quel 13,2% di ascolti che, tradotti in raccolta pubblicitaria, corrisponderebbero circa a 150 milioni di euro in meno l’anno.

Ora, se non sapessimo che dal divorzio tra il tycoon australiano e la tv di Stato, Mediaset e il suo digitale terrestre hanno solo da guadagnare, forse leggeremmo questo inaspettato matrimonio tra i due duopolisti dell’etere nostrano con un’altra chiave. Ma dato che con TivùSat si è realizzato l’ennesimo monumento al conflitto d’interessi - con il presidente del consiglio che si troverà a gestire il 48% attraverso il Tesoro in veste di capo del governo e il 48% in veste di azionista di maggioranza di Mediaset - bisogna prendere atto che da questo esperimento satellitare nasce - di fatto - un soggetto di trasmissione con una possibilità di controllo senza precedenti nella breve storia della televisione.

Sarà per questo che l’ormai defunto centrosinistra, si è risvegliato dal lungo letargo e ha riproposto la questione irrisolta del mostruoso conflitto d’interessi presentando addirittura una proposta di legge al cui primo firmatario Walter Veltroni, seguono le sottoscrizioni di tutte le opposizioni. Meglio tardi che mai. Nel frattempo, nel regno catodico di Papilandia, l’informazione e il pluralismo, già vilipesi in abbondanza, danno l’estremo saluto alla libertà di opinione.

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