di Mariavittoria Orsolato

Benché la politica sia ormai diventata, nei contenuti e soprattutto nelle forme, un surrogato delle riviste scandalistiche da ombrellone, la questione della travagliata successione alla segreteria del Partito Democratico non pare interessare più di tanto l’opinione pubblica italiana in vacanza o, almeno, non tanto quanto sta a cuore agli analisti politici, che dal quadro attuale non riescono a ricavare altro che irrisolvibili rebus. Se nel 2007 la segreteria aveva il volto di Walter Veltroni ancora prima che il partito effettivamente nascesse, ora, a distanza di due anni in cui parecchia acqua è scorsa sotto i ponti della dirigenza, la partita tra i candidati attuali - Franceschini, Bersani, Marino, Adinolfi e addirittura Beppe Grillo - somiglia più a un avvincente Risiko che a un noioso Gioco dell’oca. La candidatura di Grillo, per quanto salutata da molti come un vero e proprio evento, probabilmente si rivelerà (per motivi immaginiamo ideoburocratici) la “boutade” preconizzata da Fassino e, quella del blogger Adinolfi, non desterà sorprese rispetto alle primarie del 2007; dalla corsa dei primi tre big dovrà risultare una leadership in grado di affrontare le prossime sfide del governo, ma (e questa è una premessa banale quanto necessaria) soprattutto capace di chetare le infinite anime del partito, ben note per la loro schizofrenica tempistica politica.

L’impresa a tutta prima sembra praticamente impossibile e, anzi, chiunque vincerà il prossimo ottobre, si troverà punto e a capo. Ad una disamina più accurata vedremo infatti nei candidati esattamente le stesse correnti che si contrappongono all’interno del partito: Franceschini con i veltroniani non del tutto pentiti, Bersani con i dalemiani che non si vogliono rassegnare alla perdita del lignaggio di militanza, Marino con i giovani (sic!) quadri che non ce la fanno più ad aspettare un rinnovamento dalle correnti sopraccitate - anche e soprattutto a livello di poltrone.

Cominciamo da quest’utimo, assurto agli onori della cronaca grazie alla battaglia sul testamento biologico e la laicità dello Stato, si è ritagliato visibilità all’interno del partito durante il congresso dei giovani dirigenti a Piombino e dopo l’annuncio della sua candidatura i sindaci di Genova e Torino si sono espressi a suo favore. Potrebbe riservare sorprese nonostante sia considerato l’outsider tra i tre. Se Marino è l’uomo nuovo, Bersani (ex Pci-Pds-Ds) rappresenta l’antica classe dirigente, quella che - purtroppo solo a parole - sta con gli operai, s’interessa degli ammortizzatori sociali e crede ancora nel partito di massa con sezioni, tesserati e fedeli iscritti. Il responsabile economico del Pd è appoggiato dal correntone dalemiano e da alcuni esponenti del feudo di Fassino che proprio non ce la fanno a turarsi il naso e a votare la mozione Franceschini.

Il vice-disastro Dario - così felicemente appellato del neosindaco di Firenze, Matteo Rienzi - ha invece dalla sua tutta quella parte che crede ancora nell’utopia di Veltroni e spera di ritrovarsi in un partito in cui basti l’aggettivo “democratico” per amalgamare le volontà e le velleità personali. Il catto-dem Franceschini, ancora irrigidito nel buonismo e nel pressappochismo democristiano, è però spalleggiato da quella Debora Serracchiani che alle Europee ha preso più voti di Berlusconi; la stessa che ha puntato l’indice contro le paralizzanti vanità del partito dicendo davanti all’assemblea dei circoli che “l’appartenenza al Pd è molto più sentita dagli elettori che dai dirigenti” e che proprio per questo era piaciuta.

L’unica cosa sicura in questo turbinio di appoggi, clientele e fazioni a maggioranza democratica è la confusione di cui è preda quello che avrebbe dovuto essere il primo partito italiano, ma che l’infausto matrimonio tra Ds e Margherita ha trasformato in un meltin’pot perennemente sul punto di esplodere. La convivenza forzata di liberaldemocratici, socialisti, postcomunisti, d’integralisti cattolici e laici, di riformisti e conservatori, di sindaci sceriffi e di militanti tolleranti (e le dicotomie potrebbero continuare), non può che portare al disorientamento ideologico e alla disfatta programmatica, come infatti è stato. L’affastellamento in politica - specie quella italiana - non paga.

Ma se il partito è per dicitura democratico, allora è giusto che tutti abbiano ugual diritto di aspirare all’agognata poltrona. A questo ci dovrebbe pensare lo strumento delle primarie, eppure le complicate regole che sottostanno al sistema paiono non garantire questo sbandierato principio, lo spiega bene la bussola di Diamanti su La Repubblica: prima votano i tesserati per scegliere i delegati alla Convenzione nazionale, un’assemblea di 1000 persone che l’11 ottobre nominerà l’Assemblea nazionale di altrettanti membri (per cui supponiamo sarà un’auto-investitura); questa designerà poi i tre candidati più votati, i quali verranno stavolta sottoposti alla volontà popolare di tutti i potenziali elettori del Pd, il prossimo 25 ottobre. Il vincitore sarà confermato dall’Assemblea solo nel momento in cui raggiungerà la maggioranza assoluta dei voti, in caso contrario sarà il plenum assembleare a scegliere tramite ballottaggio tra i due candidati più apprezzati.

Considerato il quadro sopra esposto, la maggioranza assoluta sarà inverosimile da raggiungere per tutti gli sfidanti in lizza e, nel caso in cui la partita resti effettivamente a tre, la competizione in termini di numeri resterebbe nell’ambito della biforcazione Ds-Margherita, perciò tra Bersani e Franceschini, palesando nuovamente l’infattibilità politica e programmatica di questo ibrido elettorale. Nel Transatlantico di Montecitorio c’è chi dice, in riferimento alle primarie democratiche, di sentire profumo di democrazia. Siamo proprio sicuri che non sia il solito odore di muffa?

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