di Mariavittoria Orsolato

Si chiama protocollo Brunetta-Alfano e, già dal nome, non promette nulla di buono. Quello che un paio di giorni fa è stato segnalato dalle colonne di Repubblica è qualcosa di più di un semplice carteggio tra i due ministri, sebbene non sia - per dicitura - né un decreto né un disegno di legge e pertanto non possa essere discusso dagli organi preposti. In parole povere, quello che lo strampalato duo ministeriale ha intenzione di mettere in atto è una rivoluzione informatica del sistema giudiziario italiano: abolite cancellerie e archivi polverosi, la storia processuale di ogni cittadino italiano e tutti gli atti d’indagine (compresi quelli in corso di accertamento) saranno convertiti in bytes e trasferiti in un megaserver unico, sotto la custodia della polizia anziché delle procure della Repubblica- come oggi avviene. Secondo il protocollo firmato lo scorso novembre ma mai illustrato all’Anm e al Csm, si potrà “automatizzare l’alimentazione del registro delle notizie di reato, le intercettazioni e la costituzione del fascicolo del Pm e del Gip”, verrà così predisposta una “porta di dominio attestata presso il ministero della giustizia” tramite cui i dati saranno condivisi dall’intera rete delle forze di polizia. Se la bontà dell'iniziativa sembra essere rappresentata dalla velocizzazione e dall'accuratezza dello stoccaggio dei dati processuali, il rovescio della medaglia sembra paventare la costituzione di uno stato di polizia a tutti gli effetti. Quello che il Guardasigilli e il ministro della funzione pubblica stanno cercando di mettere in atto, è infatti la creazione di fascicoli virtuali che saranno visibili e accessibili prima di tutto alla polizia di stato e di conseguenza al governo: in questo modo la funzione primaria dei pubblici ministeri verrà di fatto espropriata dell'arma che la rende efficace, vale a dire la garanzia di segretezza degli atti.

Ora, se nessuno mette in dubbio la buona volontà del miniministro di “superare le scartoffie” e accorciare i tempi della nostra giustizia iperprolissa e decisamente fallibile, qualcuno potrà legittimamente obiettare che, per quanto il maxiserver sarà vigilato dalle forze dell’ordine, il suo stesso essere un archivio digitale lo esporrà a continui tentativi di hackeraggio. Non sono infatti nuovi alla polizia informatica determinati programmi in grado di crackare (come si dice in gergo) le password di accesso, né è confortante il fatto che il governo pensi di affidare la gestione tecnica dell’intero sistema non ad ufficiali giudiziari qualificati, bensì ad una società privata, che essendo privata può decidere autonomamente l’organico da predisporre a tali funzioni.

Da parte sua, l’Associazione Nazionale Magistrati si dice “sconcertata” nell’apprendere di questo progetto dalle pagine dei giornali e affida al suo presidente, Luca Palmara, la replica all’esecutivo: “Siamo favorevoli all’informatizzazione, che è da sempre un nostro cavallo di battaglia, ma è altrettanto fondamentale la segretezza degli atti d’indagine, soprattutto nei momenti più cruciali dell’attività investigativa, a partire dalle sue prime battute”. Quello che infatti preoccupa l’Anm, è che in questo modo sarà possibile un controllo continuo delle indagini nel loro divenire.

Chiamateci maliziosi, ma se a questa novità aggiungiamo la potentissima arma del lodo Alfano, è chiaro che questo cosiddetto protocollo permetterà a chi siede sugli scranni più alti di conoscere in tempo reale se esistono indagini che li riguardano in prima persona, vanificando di conseguenza il lungo lavoro di equipe tra pm e polizia giudiziaria. Che dire poi della privacy tanto cara al nostro Padron’ Silvio? Sebbene una razionalizzazione del nostro sistema giudiziario sia decisamente necessaria, non bisogna dimenticare che la rete è molto più fallibile (e fallabile) di un qualsiasi cancelliere di tribunale e che, pertanto, una ristrutturazione in questo senso necessita più che mai regole di ferree, di attendibilità e soprattutto di una grande responsabilità.

Ad oggi la gestione degli atti d’indagine è circoscritta al ristretto gruppo di ufficiali giudiziari che lavora in team con il pubblico ministero; il rischio di fuga di notizie è tangibile - e lo abbiamo constatato più volte - ma , se non altro, in questo sistema bilaterale i possibili responsabili della fuoriuscita di informazioni secretate sono circoscritti e quindi facilmente identificabili. Al contrario, se il protocollo dovesse tradursi in realtà, le probabilità di scovare i responsabili delle violazioni si moltiplicherebbero all’infinito, rendendo perciò impossibile la persecuzione penale dei colpevoli. C’è da dire che una mossa del genere non la aspettavamo proprio dai paladini anti-intercettazioni!

Non se la aspettavano probabilmente nemmeno in via Arenula, dove confermano l’esistenza del protocollo ma smentiscono energicamente l’importanza strategica del megacervellone informatico: il giovane Angelino non avrebbe infatti sufficienti risorse per amministrare un sistema così complicato e la gara di appalto per la gestione dello stesso avrebbe tempi troppo lunghi per poter soddisfare un intervento che si prefigura a breve termine.

Stando però all'intento di riforma del processo penale - che per ora langue sulla scrivania del nostro ministro in pectore - Alfano progetterebbe di incrementare l’efficienza dei pubblici ministeri, obbligandoli all’uso coercitivo dei mezzi telematici, pena il procedimento disciplinare. Insomma, non solo la cancelleria unica diventerà realtà a breve, ma i magistrati faranno meglio ad usufruirne se non vogliono correre il rischio di essere esautorati dai loro incarichi. Una strategia infallibile quindi, che proprio essendo infallibile tradisce la reale paternità di questo provvedimento (che tutto è, fuorché in favore della giustizia): avrebbero dovuto chiamarlo “protocollo Ghedini”, ci avrebbero risparmiato tante illazioni.

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