di Giovanni Cecini

Come ogni agosto a Rimini si è aperto il Meeting di “Comunione e Liberazione” dando adito a spunti di riflessione, a eclettici dibattiti e a immancabili aspre polemiche. La società italiana, in un Paese di secolari contraddizioni e contrapposizioni manichee, magari annoiata dall’afa balneare o dal gossip da quattro soldi, spesso prende ispirazione proprio dall’incontro romagnolo, per rendere ancora più distanti le due sponde del Tevere. Quest’anno nella prima giornata il cardinale Angelo Bagnasco, in qualità di presidente dei vescovi italiani, ha voluto ribadire un sempreverde leitmotiv sul rapporto tra Chiesa e Politica. In realtà non ha detto nulla di nuovo, essendo l’argomento vecchio come la Chiesa stessa, a partire proprio dal monito evangelico di “lasciare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” per passare attraverso secoli di lotte per affermare la temporalità del potere religioso. Appare però opportuno rilevare l’argomentazione espressa, attraverso un’attenta analisi delle parole del porporato, che anche fuori dal pulpito, mostrano un che di accademico e di narcisistico. Sembra fuori discussione che le autorità religiose possano esprimere il loro parere, il loro indirizzo a quanti si dicono aderenti o che professino una determinata fede spirituale; altra cosa è basare le posizioni specifiche come “assolute” o “esclusive” in un contesto molto più variegato, soggetto a diverse culture e a specifiche sensibilità. In genere le professioni di fede e le dichiarazioni di verità sono poco adattabili alla sfera della politica, dove i valori sono sì importanti, ma vanno sempre di pari passo con la contingenza e l’opportunità delle situazioni.

E’ quindi chiaro leggere nelle parole di Bagnasco il desiderio di limitare la politica alla tradizione e alla storia cristiano-cattolica, quando in realtà in uno Stato molte variabili, tra loro interdipendenti, contribuiscono alla solidità democratica di un Paese. Se la “verità” (religiosamente intesa) fosse alla base delle scelte elettorali o delle decisioni dei governanti, non si avrebbero possibilità di scelta, alternanze e la sana dialettica delle parti, ma piuttosto l’opprimente e monolitica regia di una Provvidenza teocratica che tutto regola e dirige per il bene della Città di Dio sulla Terra. Forse ne avrebbe da ridire anche Sant’Agostino.

Va dato atto che nell’anno e mezzo dalla sua nomina al vertice della Cei, il cardinale abbia incentrato la sua pastorale verso il basso, spingendo l’azione della Chiesa in direzione della gente vera, in favore delle famiglie e dei problemi quotidiani. Di riflesso però, ciò viene interpretato da gran parte dei vertici ecclesiastici come la possibilità di interferire e quasi dettare l’agenda politica di una società in cui, se oltre il 90% della popolazione si dichiara cristiano, le convivenze, i divorzi e altre scelte in antitesi con il dettato cattolico evidenziano un chiaro e significativo segnale di scollamento della Comunità dai precetti e dalla morale espressa come bandiera dalla Cei.

La Chiesa, per svolgere la sua attività di testimonianza e proselitismo, non ha bisogno e sarebbe anche grottesco rincorrere mode o stili alternativi di comportamento (ecco perché è risibile lo scimmiottamento del convento di suore campano dove di recente si è organizzato un Miss suora 2008), ma ciò non può permettere di ergere come onnicomprensiva la tradizione e la storia dei cattolici come base esclusiva e necessaria per affrontare problemi di ordine politico, economico e sociale. Se Gesù Cristo non giudicò di questo mondo il suo regno, perché i suoi rappresentanti successivi dovrebbero anticiparne e secolarizzarne l’inizio?

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