Il governo ucraino, che l’Occidente sostiene e considera come un baluardo di democrazia e libertà contro la barbarie russa, sta pianificando e mettendo in atto già da tempo un vero e proprio genocidio culturale in linea con il dilagare, nelle strutture dello stato, dell’influenza degli ambienti apertamente neonazisti. Questa realtà viene in genere occultata dalla stampa “maninstream” in Europa e negli Stati Uniti, ma le dichiarazioni e le notizie di iniziative radicali anti-russe circolano talvolta anche nel dibattito ufficiale, se non altro perché un’identica attitudine ultra-reazionaria nei confronti di qualsiasi manifestazione della cultura o della storia russa pervade in larga misura le stesse opinioni delle élites occidentali.

 

Una recentissima prova delle intenzioni delle autorità di Kiev è l’intervista rilasciata dal braccio destro di Zelensky, il consigliere “senior” Mikhail Podoliak, al network RFE/RL (Radio Free Europe/Radio Liberty), organo di propaganda controllato e finanziato dal governo americano. Podoliak ha tranquillamente prospettato lo “sradicamento di tutto quanto è russo in Crimea” una volta che il regime ucraino avrà rimesso le mani sulla penisola affacciata sul Mar Nero.

La Crimea è storicamente un territorio legato alla Russia. Parte dell’impero zarista dal 1783 e poi dell’Unione Sovietica, nel 1954 venne trasferita unilateralmente da Nikita Kruscev sotto il controllo della repubblica sovietica ucraina. Dopo il golpe di estrema destra a Kiev nel 2014, i residenti della Crimea votarono a larghissima maggioranza a favore del ricongiungimento con la Russia in un referendum mai riconosciuto dal governo ucraino né dall’Occidente. Da allora, la “comunità internazionale” continua a rivendicare il ritorno della Crimea all’Ucraina, senza alcun riguardo per le implicazioni storiche e le aspirazioni della popolazione. Per non parlare della monumentale ipocrisia se si paragona la vicenda ad altre situazioni, come ad esempio quella del Kosovo.

Tornando all’intervista di Podoliak, quest’ultimo ha spiegato nel dettaglio i piani di Kiev in vista dell’improbabile riconquista della Crimea, spiegando nel contempo alcune delle ragioni per cui la penisola ha lasciato l’Ucraina per la Russia ormai nove anni fa. I residenti della Crimea, per cominciare, non avranno più la possibilità di leggere la letteratura russa o di guardare film russi. La lingua russa non potrà essere inoltre parlata in pubblico e tutti coloro che non si adegueranno alle direttive del regime dovranno lasciare il paese.

Una durissima repressione attende quanti saranno ritenuti “collaboratori” o “traditori”, mentre chi, per qualsiasi ragione, abbia cambiato la propria cittadinanza da ucraina a russa sarà oggetto di indagini e “provvedimenti legali”. È facile comprendere quanto serie siano le minacce, visto che ritorsioni e violenze sono già state documentate nei confronti di presunti collaborazionisti nelle località ucraine da dove nei mesi scorsi le forze armate russe si erano ritirate. Come già accaduto in questi casi, anche un eventuale scenario simile in Crimea vedrebbe impegnati gruppi paramilitari e milizie neo-naziste per ristabilire l’ordine, ovvero portare a termine vendette e repressioni contro la maggioranza della popolazione russofona o semplicemente ostile al regime di Zelensky.

Le parole di Podoliak vanno collegate allo sforzo delle autorità ucraine per liquidare tutti i simboli della lingua, della cultura e dell’eredità storica russa, accelerato vertiginosamente dopo l’inizio delle operazioni militari nel febbraio dello scorso anno. Attraverso leggi o semplici iniziative a livello locale, questa campagna ha raggiunto livelli assurdi e insensati, come l’eliminazione di milioni di libri di autori russi da biblioteche e altre istituzioni pubbliche ucraine, senza nessun riguardo per i complessi e profondi legami storici e famigliari tra i due paesi e le rispettive popolazioni.

Alla fine di marzo, il parlamento ucraino ha invece approvato in via definitiva un provvedimento che vieta l’utilizzo di nomi geografici associati alla Russia o alla storia russa. Questi nomi, sostiene la legge, “simboleggiano un paese occupante o i suoi luoghi e personalità storiche e culturali di rilievo”. Dietro allo scopo ufficiale di “decolonizzare” i toponimi in Ucraina, la legge intende cancellare in particolare la storia dell’ultimo secolo, legata alla rivoluzione di Ottobre e all’esperienza sovietica.

Ancora peggio, così facendo, l’attuale classe politica promuove in parallelo il mito storico del nazionalismo ucraino, i cui “eroi” sono i collaborazionisti del nazismo hitleriano, autori essi stessi di stragi e massacri durante la Seconda Guerra Mondiale. Nelle strade di Kiev e di altre città ucraine sono stati così cancellati i nomi di località, scrittori o generali russi, sostituiti con quelli di leader anti-bolscevichi, come Pavlo Skoropadskyi, o molto più spesso l’icona del neo-nazismo ucraino, Stepan Bandera, fondatore della famigerata Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini e fiancheggiatore dei nazisti nell’uccisione di massa di ebrei e polacchi.

Gli eredi odierni sono le formazioni neo-naziste come il Battaglione Azov o Settore Destro, i cui militanti sono stati integrati nelle forze armate regolari. Anch’essi si sono già visti intitolare strade e piazze in Ucraina. Lo scorso ottobre, una via di Kiev dedicata al generale sovietico Rodion Malinovsky, uno dei protagonista della sconfitta nazista di Stalingrado, è stata infatti intitolata al Battaglione Azov nel corso di una cerimonia a cui aveva partecipato, tra gli altri, il fondatore della milizia neo-nazista, Andriy Biletsky. In una famosa dichiarazione risalente al 2010, quest’ultimo aveva affermato che la missione della nazione ucraina era quella di “guidare le razze bianche del pianeta in una crociata finale contro gli ‘Untermenschen’ [subumani] capeggiati dai semiti”.

Le basi di questa offensiva erano state gettate all’indomani del colpo di stato del 2014. Già l’anno successivo sarebbe stata poi adottata una legge per mettere al bando i simboli del comunismo, assieme al divieto imposto al Partito Comunista ucraino di partecipare alle elezioni. La guerra ai simboli socialisti e comunisti è evidentemente associata alla promozione di una mitologia di estrema destra collegata ai precedenti storici già ricordati. Una strategia, quella del nuovo regime appoggiato dall’Occidente, che ha trovato un qualche seguito nelle regioni occidentali dell’Ucraina, mentre è stata in larga misura osteggiata a est, e non solo nel Donbass, dove la maggioranza della popolazione è russofona o ha legami di qualche genere con la Russia.

Questa inquietante campagna di revisionismo storico all’insegna della glorificazione del neo-nazismo sta avvenendo nel completo silenzio delle “democrazie” occidentali che, anzi, continuano a celebrare il regime di Kiev come un modello di democrazia e libertà da sostenere a oltranza, anche a rischio di fare esplodere una guerra nucleare.

Di pari passo con la cancellazione della storia russa, d’altra parte, Zelensky e la sua cerchia di potere stanno procedendo con attacchi sistematici contro le residue libertà democratiche. Questa tendenza è testimoniata, tra l’altro, dallo smantellamento dei diritti dei lavoratori, dalla guerra alla chiesa Ortodossa che fa capo al patriarcato di Mosca, dalla svendita degli “asset” ucraini a finanziarie e multinazionali occidentali, dalla messa al bando di praticamente tutti i partiti di opposizione e dalle torture e dagli assassinii ampiamente documentati di presunti “collaborazionisti” filo-russi o semplici oppositori del regime.

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