Il gravissimo attentato terroristico che ha sconvolto il centro di Istanbul nella giornata di domenica si inserisce per la Turchia in un quadro domestico e internazionale sufficientemente caldo da sollevare seri interrogativi sui mandanti e le ragioni dell’esplosione. Il governo di Ankara ha fatto sapere di avere già individuato i responsabili, prevedibilmente collegati alle formazioni curde PKK e YPG, mentre già poche ore dopo gli eventi è stata arrestata una donna di nazionalità siriana. Il bilancio più recente parla intanto di sei vittime e 81 feriti, di cui molti in condizioni critiche.

Secondo le autorità turche, la 23enne siriana, la cui immagine è stata tempestivamente resa pubblica, sarebbe entrata nel paese dalla regione di Afrin, nella parte nord-occidentale della Siria. Le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza sulla trafficatissima via Istiklal avrebbero permesso di individuare la donna, accusata di avere lasciato uno zaino con l’esplosivo nell’area pedonale vicina a piazza Taksim. Oltre alla donna curdo-siriana, agli arresti sono finiti anche una ventina di altri sospettati, secondo il ministero dell’Interno anch’essi legati a “gruppi terroristi” curdi.

 

La matrice curda dell’attentato di domenica è assieme la più plausibile e la più comoda per il governo di Ankara. È però anche interessante notare come Erdogan e gli altri leader turchi abbiano subito collegato gli eventi al ruolo internazionale che il loro paese sta svolgendo negli ultimi anni. Piuttosto esplicito è stato il vice-presidente, Fuat Oktay, il quale ha spiegato che la Turchia è un paese che “ha raggiunto una stabilità sotto ogni aspetto, in termini sia di sviluppo sia di pace e sicurezza”. Oktay ha poi parlato di un vero e proprio “messaggio” che la Turchia avrebbe ricevuto tramite l’attentato, per via dell’influenza che essa esercita “nella regione e nel mondo”.

Il riferimento indiretto è principalmente ai due teatri di crisi nei quali la Turchia è coinvolta, sia pure con modalità differenti. Il primo è quello russo-ucraino, nel quale Erdogan ha cercato fin dall’inizio delle operazioni militari a febbraio di agire da mediatore tra Mosca e Kiev. L’altro, più direttamente legato alla questione curda, riguarda invece la Siria.

Per quanto riguarda l’Ucraina, Ankara continua a resistere alle pressioni americane per prendere le distanze da Mosca e abbracciare la causa di Kiev. Erdogan ha peraltro mantenuto i rapporti con il regime di Zelensky, vendendo a quest’ultimo equipaggiamenti militari, ma la partnership con la Russia non ne ha minimamente risentito. Anzi, Ankara ha approfittato e continua ad approfittare delle dinamiche del conflitto e della crociata anti-russa dell’Occidente, come dimostra la recente intesa tra Erdogan e Putin per fare della Turchia un “hub” del gas russo diretto in Europa.

I malumori occidentali nei confronti della politica estera indipendente di un paese NATO come la Turchia sono noti da tempo, tanto da avere portato a un tentativo di golpe nei confronti di Erdogan nell’estate del 2016. Il presidente turco aveva in quell’occasione puntato il dito contro alcuni alleati NATO ed è facile ipotizzare che le attività di destabilizzazione contro il governo di Ankara non siano mai cessate.

In quest’ottica, è possibile almeno in teoria leggere l’attentato di domenica come un vero e proprio avvertimento ordinato dagli stessi partner turchi. Sono d’altra parte gli esponenti del governo turco in queste ore ad avere rilasciato dichiarazioni esplosive in merito ai fatti di Istanbul. Il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, ha ad esempio respinto le “condoglianze” dell’ambasciata americana in Turchia, lasciando intendere che gli Stati Uniti abbiano almeno una parte di responsabilità nell’attacco. A suo dire, l’espressione di dolore americana va interpretata come “l’arrivo dell’assassino per primo sul luogo del delitto”.

Soylu ha poi sollevato la questione dell’appoggio USA ai curdi in Siria. Qui, le milizie curde sono il punto di riferimento di Washington nell’occupazione di una parte del paese mediorientale e nella campagna mai venuta meno per forzare il cambio di regime a Damasco. È evidente che Ankara veda come una minaccia alla propria sicurezza e sovranità la collaborazione tra Stati Uniti e curdi siriani. Visti inoltre i precedenti circa l’impiego da parte americana di elementi terroristi per avanzare i propri obiettivi strategici, è del tutto possibile che determinate operazioni condotte dal PKK e dal YPG siano guidate o coordinate dall’intelligence USA.

Ad ogni modo, il collegamento con la crisi ucraina va discusso anche in relazione alla notizia dell’avvio di un nuovo round di colloqui tra Stati Uniti e Russia proprio a Istanbul nella giornata di lunedì. Non è chiaro quale sia l’obiettivo di un attentato alla vigilia di un appuntamento per aprire la strada a un difficile negoziato e che sembra essere perseguito soprattutto da Washington. All’interno del governo americano e delle classi dirigenti degli altri paesi occidentali esistono tuttavia profonde divisioni sull’opportunità di esplorare un possibile percorso diplomatico per l’Ucraina, tanto più se con la mediazione di una Turchia che, in caso di successo, potrebbe sfruttare il proprio ruolo per promuovere ulteriormente l’ambiziosa politica estera di Erdogan.

Da considerare ci sono anche i riflessi della guerra in Siria. Nell’ultimo periodo sono stati almeno due i fattori che hanno fatto intravedere un riassestamento della strategia turca. In primo luogo, il governo di Ankara ha più volte sollevato l’ipotesi di un ristabilimento delle relazioni anche a livello politico con Assad, partendo dalle basi gettate con una serie di discussioni tra i vertici dei rispettivi servizi di intelligence. Non è un segreto che qualsiasi iniziativa tesa a normalizzare i rapporti con Damasco venga vista con estremo fastidio da Washington, così come dai gruppi dell’opposizione armata siriana sostenuti dalla Turchia.

In relazione a quest’ultimo aspetto della crisi siriana, vanno ricordate anche le recenti notizie sulla riorganizzazione della galassia delle formazioni fondamentaliste che rimangono attive nel nord-est del paese. Alcuni media che si occupano di Medio Oriente hanno raccontato nei giorni scorsi di tensioni dovute al tentativo turco di riallineare ai propri interessi le varie fazioni che, sempre più, appaiono impegnate in una sorta di guerra interna. Secondo il sito Al-Monitor, Ankara starebbe agendo per mezzo di “minacce e ultimatum”, così che, se si è disposti a scartare l’ipotesi curda agitata dalle autorità turche, i gruppi emarginati o richiamati all’ordine potrebbero avere deciso una qualche ritorsione a Istanbul.

Esplorando invece ancora l’opzione curda, è utile citare un’altra dichiarazione del ministro dell’Interno turco dopo l’attentato. Senza nominare alcun paese in maniera esplicita, Soylu ha ricordato come alcuni “cosiddetti alleati” sostengano finanziariamente i terroristi curdi, riferendosi ai governi di Svezia e Finlandia, tuttora in attesa del via libera di Ankara alla loro richiesta di adesione alla NATO. Erdogan ha vincolato l’approvazione turca alla cessazione di quella che ritiene essere una stretta collaborazione tra Stoccolma e Helsinki da una parte e i militanti del PKK dall’altra. Sulla Turchia ci sono fortissime pressione affinché venga dato il via libera all’ingresso nel Patto Atlantico dei due paesi fin qui ufficialmente neutrali. Allo stesso tempo, Erdogan intende utilizzare la vicenda per incassare un risultato da mostrare alla base del suo partito in vista delle elezioni del prossimo anno.

Proprio il voto per la scelta del prossimo presidente e per il rinnovo del parlamento rappresentano un ulteriore elemento da considerare alla luce dell’esplosione di domenica. Erdogan e il suo partito (AKP) sono dati in affanno dopo due decenni al potere, soprattutto per via della crisi economica e degli elevati livelli di inflazione che la Turchia sta registrando. Anche senza scivolare in tesi complottiste, è indiscutibile che un clima di paura alimentato da attentati terroristici possa aiutare il governo in carica.

Uno scenario di questo genere aveva favorito infatti l’AKP nel 2015. Dopo il voto nel mese di giugno di quell’anno, Erdogan non era riuscito a ottenere una maggioranza in parlamento e i negoziati per creare un governo di coalizione che ne erano seguiti non avevano dato frutti. Nuove elezioni furono allora indette per il novembre successivo e, dopo una campagna elettorale segnata da svariati episodi di terrorismo nel paese, l’AKP avrebbe riconquistato il terreno perduto consolidando la propria posizione di potere.

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