La notizia del ritiro delle forze armate russe dalla città di Kherson e sulla riva sinistra del fiume Dnepr è arrivata questa settimana come una doccia fredda per molti osservatori che simpatizzano con le posizioni del Cremlino. La decisione presa dal ministro della Difesa, Sergey Shoigu, dietro raccomandazione del nuovo comandante delle forze russe in Ucraina, generale Sergey Surovikin, crea senza dubbio un nuovo grave problema di immagine per Mosca. Dal punto di vista operativo, la questione è invece più complicata. Ci saranno quasi certamente contraccolpi sia di natura tattica che strategica per la Russia, ma il quadro generale del conflitto potrebbe riservare sviluppi inaspettati e, forse, decisivi nelle prossime settimane.

 

I fatti

Il ripiego russo da una regione o, più precisamente, da una parte di territorio di una regione che a settembre aveva approvato in un referendum l’annessione alla Federazione Russa è stato ufficializzato mercoledì con un annuncio pubblico del già ricordato Shoigu. Le autorità militari di Mosca hanno spiegato che, alla luce delle circostanze, la priorità è rappresentata dalla salvaguardia della vita dei soldati e dal mantenimento delle capacità di continuare a condurre le operazioni inaugurate lo scorso febbraio.

L’iniziativa è dovuta all’offensiva in corso delle forze ucraine, le quali continuano a minacciare la distruzione della diga di Kakhovka, con il risultato di possibili devastanti inondazioni che renderebbero molto difficile la difesa dell’area da parte russa, visto il venir meno di efficaci linee di rifornimento e comunicazione. Il rischio è altissimo anche per la popolazione, tanto che la notizia del ritiro dei militari russi era stata preceduta dall’evacuazione di circa 115 mila civili dalla città di Kherson.

La decisione di Mosca non è evidentemente avventata, ma è stata presa dopo un’attenta valutazione delle possibilità a disposizione sul campo. Già all’indomani della sua nomina a inizio ottobre, il generale Surovikin aveva d’altronde prospettato “decisioni difficili”, riferendosi con ogni probabilità al crescente rischio di isolamento del contingente russo sulla sponda occidentale del Dnepr.

Pessimi PR

Come più volte è accaduto in questi mesi di guerra, con i fatti di Kherson la Russia è andata incontro a un nuovo danno di immagine che consegna al regime di Zelensky e ai suoi sponsor in Occidente un’arma di propaganda da sfruttare immediatamente, soprattutto per recapitare all’ex comico televisivo altri carichi di armi e denaro. A Kiev, così come a Washington e in Europa, serviva a tutti i costi una vittoria apparente per attenuare l’ostilità crescente delle popolazioni occidentali, costrette a fare i conti con le conseguenze economiche del conflitto e delle (auto-)sanzioni teoricamente dirette contro la Russia.

I fatti di questi giorni devono essere inquadrati in una strategia, com’è quella russa, che non si basa sulla difesa a oltranza di una qualsiasi porzione di territorio, ma sul perseguimento degli obiettivi prefissati dalla leadership politica, adattandosi di volta in volta alla realtà sul campo. Una situazione simile si era già verificata a Kharkov, dove il ripiegamento russo e l’avanzata ucraina erano stati propagandati in Occidente come un trionfo per il regime d Kiev, salvo poi svanire dalle prime pagine dei giornali in conseguenza di un sostanziale stallo dell’offensiva e della stabilizzazione della linea del fronte.

Stesso discorso vale per il costo dei “successi” dell’Ucraina in termini di uomini e di mezzi. Finora, Zelensky e i governi che lo appoggiano hanno puntato su un metodo dissennato e criminale che consiste nel gettare nel tritacarne della guerra quanti più soldati e mezzi possibili, in modo appunto da ottenere risultati apparentemente clamorosi ma modesti sul piano strategico e, soprattutto, non giustificati dalle perdite puntualmente registrate. Una situazione di questo genere potrebbe crearsi anche a Kherson, dove le forze ucraine rischiano di esporsi ancora di più al fuoco devastante dell’artiglieria russa. A questo proposito, va ricordato che, secondo le autorità di Mosca, l’Ucraina ha registrato oltre 12 mila vittime tra i propri militari nel solo mese di ottobre, tra cui 9.500 nella regione di Kherson.

Questo aspetto della guerra viene poco menzionato in Occidente, ma nel medio e lungo periodo non può che dissanguare il regime di Zelensky e minare le residue capacità offensive. Di riflesso, poco o per nulla si parla delle condizioni in cui è avvenuto o avverrà il ritiro russo da Kherson. La decisione non è stata presa in fretta e furia per via di un attacco decisivo da parte delle forze ucraine, ma in seguito a un riassetto ponderato della strategia bellica, ovvero mantenendo intatto il potenziale offensivo. In altre parole, l’avanzata degli ucraini non è costato materialmente nulla alla Russia, così che gli uomini e i mezzi risparmiati grazie al ripiegamento potranno essere impiegati sia per una controffensiva a Kherson sia su altri fronti del conflitto.

Non solo un danno d’immagine

Secondo gli analisti militari, la débacle di Kherson non inciderà sugli esiti complessivi della guerra. Resta però il fatto che il ritiro ordinato questa settimana implica più di un problema per Mosca e non solo in termini di immagine o propaganda. Per quanto riguarda le operazioni, l’arretramento come minimo rinvia quello che sembra essere uno degli obiettivi finali della Russia: l’avanzata verso Nikolaev e, da qui, a Odessa. In questo senso, era difficile aspettarsi un esito diverso alla luce della quantità ridotta di uomini e mezzi con cui il Cremlino ha finora deciso di condurre le operazioni contro un nemico appoggiato in pratica da tutto l’Occidente.

Inoltre, la messa in discussione di Kherson minaccia di riconsegnare almeno una parte di questo “oblast” al regime di Kiev, con il risultato di mettere nuovamente a rischio le comunicazioni via terra con la Crimea e, soprattutto, le forniture idriche. Va anche ribadito che la regione di Kherson è tra quelle da poco annesse dalla Federazione Russa e il ritiro avrà effetti tutt’altro che positivi sul morale di parte della popolazione dello stesso “oblast” meridionale e della madrepatria.

Sempre a questo proposito, il ritiro da Kherson è stato accostato proprio in queste ore a un possibile rilancio della diplomazia. Un’impressione rafforzata anche da una dichiarazione rilasciata mercoledì dal ministero degli Esteri russo circa la disponibilità di Mosca a negoziare. La portavoce, Maria Zakharova, ha precisato che dovrà essere comunque presa in considerazione “la realtà che sta emergendo al momento”, ma c’è da chiedersi se nel quadro di un futuro accordo di pace Putin sarà disposto, visti i possibili nuovi equilibri a Kherson, a cedere un territorio che a tutti gli effetti fa parte della Federazione Russa.

Parte il negoziato?

I fatti di Kherson coincidono probabilmente in maniera non casuale con il moltiplicarsi dei segnali, sia pure ancora molto timidi, di possibili manovre in corso per intavolare un negoziato di pace. Mercoledì, il network americano NBC ha citato esponenti anonimi del governo di Washington secondo i quali con l’inverno ci sarà “una chance per la diplomazia tra Russia e Ucraina”, visto che nessuna delle due parti sarà in grado di raggiungere i propri obiettivi proseguendo la guerra.

In precedenza, proprio la battaglia di Kherson era stata indicata come un fattore in grado di rafforzare la posizione del regime di Zelensky in previsione di un possibile negoziato con Mosca. Repubblica, in un articolo ampiamente citato dalla stampa internazionale, aveva a sua volta evidenziato come gli USA e la NATO si attendessero uno sblocco della situazione dopo la riconquista di Kherson da parte dell’Ucraina. Queste coincidenze hanno convinto più un osservatore dell’esistenza di un collegamento con il ritiro russo.

Ad alimentare i sospetti è anche il recente blitz a Kiev del consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan. Al di là delle consuete dichiarazioni di circostanza relative all’appoggio al regime ucraino, qualcuno ha ipotizzato che l’inviato di Biden abbia semplicemente messo Zelensky davanti al fatto compiuto di un abbozzo di trattativa tra Washington e Mosca. Ciò che è trapelato sulla stampa è tuttavia soltanto il relativo ammorbidimento del presidente ucraino sulla condizione di non trattare con la Russia finché alla guida del paese ci sarà Vladimir Putin.

Zelensky, da parte sua, nei giorni scorsi ha aperto anch’egli alla diplomazia, anche se fissando una serie di condizioni totalmente fuori dalla realtà. Più che il contenuto delle varie dichiarazioni dei protagonisti della crisi, ad ogni modo, sembrano contare al momento i segnali di apertura al dialogo con Mosca per la prima volta dopo le trattative di Istanbul a marzo, boicottate da Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel quadro complessivo va inserito anche l’esito delle elezioni di “metà mandato” negli USA che, se non disastrose come si pensava per il Partito Democratico, finiranno comunque per indebolire la posizione dell’amministrazione Biden.

La manovra russa a Kherson potrebbe dunque rientrare in questo complesso gioco di specchi in una fase di relativa transizione del conflitto, in attesa del consolidamento della mobilitazione ordinata da Putin a settembre. Dietro le quinte è del tutto possibile che i colloqui non si siano mai fermati, grazie anche all’opera di mediazione di governi neutrali, a cominciare da quello della Turchia o dell’Arabia Saudita.

Il tempo dell’ottimismo è però ancora lontano e i fatti concreti indicano piuttosto un impegno da parte degli USA e dell’Europa per un conflitto di lunga durata. Bruxelles ha appena annunciato un pacchetto di aiuti all’Ucraina da 18 miliardi di euro per il 2023. Il governo americano, invece, intende tra l’altro creare un “quartier generale” in Germania, composto da centinaia di funzionari in divisa, deputato al coordinamento delle forniture di armi ed equipaggiamenti militari destinati a Kiev.

Qualunque sia insomma l’esito delle vicende belliche da qui ai prossimi mesi, l’impegno americano in funzione anti-russa a fianco del regime di Zelensky – o di chiunque possa prendere eventualmente il suo posto come nuovo burattino di Washington – è destinato a durare ancora molto a lungo.

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