Il presidente americano Biden e il Partito Democratico sembrano avere evitato l’ondata repubblicana che in molti prevedevano alla vigilia delle elezioni di “metà mandato” concluse nella serata di martedì. Parecchie competizioni a livello locale e nazionale sono ancora in bilico e i risultati finali potrebbero in alcuni casi non essere disponibili ancora per parecchi giorni. Il Partito Repubblicano dovrebbe però riuscire a tornare maggioranza almeno alla Camera dei Rappresentanti, scardinando così gli equilibri usciti dal voto del 2020, con tutte le possibili conseguenze del caso su alcune questioni esplosive come la guerra in Ucraina o il potenziale impeachment di Joe Biden.

Ancora molto incerta è invece la situazione al Senato. Nella camera alta del Congresso di Washington erano in palio 34 seggi su 100 e a decidere quale dei due partiti deterrà la maggioranza saranno una manciata di sfide al fotofinish. Non è da escludere che alla fine gli equilibri rimarranno quelli attuali, con 50 seggi ciascuno e il voto della vice-presidente, Kamala Harris, nuovamente decisivo per garantire una risicatissima maggioranza democratica.

 

Osservando il quadro più ampio, l’elemento che emerge è il senso di sfiducia degli americani per un sistema ormai trasformato quasi del tutto in una vera e propria oligarchia con interessi e obiettivi lontani anni luce dalla grandissima maggioranza della popolazione. Alcune indagini di opinione raccolte all’esterno dei seggi hanno evidenziato un’attitudine generalmente negativa e preoccupazioni da ricondurre alla difficile situazione economica piuttosto che alla difesa della (nazi-)democrazia ucraina o al moltiplicarsi delle identità di genere.

La visione pessimistica del futuro non combacia peraltro con una fiducia significativa nei confronti di Trump e della destra populista del Partito Repubblicano. Non c’è dubbio che l’ex presidente continui a capitalizzare la repulsione diffusa per l’attuale amministrazione democratica, ma quello trumpiano resta ben lontano dall’essere un movimento di massa negli Stati Uniti. Un sondaggio condotto tra i votanti e pubblicato martedì dalla CNN ha rilevato per Trump un gradimento inferiore al 39%, contro un livello di disapprovazione pari al 58%. L’avanzata della destra repubblicana a quasi due anni dall’assalto a Capitol Hill è in sostanza il risultato dell’abbandono anche formale da parte del Partito Democratico di qualsiasi parvenza di impegno a favore di lavoratori e classe media.

Nello specifico del voto, alcuni dati sembrano spiccare per le implicazioni che potrebbero avere in vista delle presidenziali del 2024. Ad esempio, il voto di “midterm” ha consolidato la superiorità repubblicana in stati fino a pochi anni fa in bilico tra i due partiti e spesso decisivi nelle presidenziali: Florida e Ohio. Nel primo si sono riconfermati nettamente sia il senatore Marco Rubio sia il governatore Ron De Santis, possibile candidato alla presidenza tra due anni. In Ohio il copione è stato lo stesso. Il seggio aperto del Senato è andato a JD Vance, trumpiano di ferro e sostenitore della tesi dell’elezione rubata del 2020, mentre la guida dello stato al governatore in carica Mike DeWine con un vantaggio di circa 25 punti percentuali sulla rivale democratica.

Al contrario, in altri stati, dove non c’è solitamente una netta maggioranza per l’uno o l’altro partito, hanno invece prevalso i democratici, talvolta contro pronostico. Importante è stato il risultato della Pennsylvania, dove il partito di Biden ha vinto il seggio del Senato e l’ufficio del governatore, sia pure perdendo 8 seggi su 13 alla Camera. Il candidato governatore sconfitto, Doug Mastriano, aveva lasciato intendere che, in caso di vittoria, avrebbe valutato la possibilità di non ratificare un eventuale successo del Partito Democratico nelle presidenziali del 2024.

È andata meglio del previsto per i democratici anche in Michigan, dove però non c’erano seggi del Senato in palio, e per il momento in Arizona. In quest’ultimo stato il Partito Democratico sembra doversi aggiudicare le sfide per il Senato e per le più importanti cariche locali: governatore, segretario di stato e procuratore generale. Lo spoglio è però in ritardo rispetto ad altri stati e già nelle ultime fasi del voto nel tardo pomeriggio di martedì si erano verificati problemi con le operazioni ai seggi, subito sfruttate da Trump e dai repubblicani.

Alcune segnalazioni di malfunzionamento delle macchine utilizzate per il voto elettronico avevano spinto Trump a pubblicare un video in rete nel quale chiedeva agli elettori repubblicani in fila ai seggi di rimanere sul posto poiché si stavano verificando “molte cose brutte”. Sull’Arizona e su altri stati, come la Pennsylvania e il Michigan, si erano concentrati già nelle scorse settimane gli attacchi di Trump e dei suoi sostenitori contro il sistema elettorale, secondo alcuni in previsione di un’offensiva post-voto per denunciare brogli veri o presunti in caso di sconfitta dei candidati repubblicani.

Le critiche più feroci si sono abbattute sui ritardi nel conteggio dei voti, anche se in questo caso il problema era ampiamente in preventivo, vista la necessità di attendere le schede inviate per posta e una serie di complicazioni tecniche legate alla loro convalida. Se le proteste repubblicane sono per lo più strumentali, è comunque innegabile che il sistema utilizzato dalla gran parte degli stati americani sia tutt’altro che funzionale e provochi in molti casi lungaggini che rischiano di peggiorare un clima già infuocato.

Se gli esiti definitivi del “midterm” dovessero premiare complessivamente il Partito Repubblicano, è evidente che la tornata elettorale servirà a Trump come trampolino di lancio per la corsa alla Casa Bianca. Qualche giorno fa, l’ex presidente aveva infatti fissato per il 15 novembre un importante annuncio dalla sua residenza in Florida, con ogni probabilità per ufficializzare la candidatura alle elezioni del 2024. I rapporti di forza nel Partito Repubblicano saranno perciò oggetto di contese ancora più aspre nei prossimi mesi, soprattutto se si verificherà un cambio di maggioranza anche al Senato.

Le prime avvisaglie si sono viste già martedì, con Trump che è tornato ad attaccare l’attuale leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, per le sue posizioni ritenute troppo moderate. In caso il suo partito dovesse tornare a mettere le mani sulla camera alta del Congresso, Trump sembra intenzionato a lanciare alla carica di leader il senatore della Florida Rick Scott, decisamente più adatto rispetto al veterano McConnell allo spostamento a destra in atto del baricentro politico repubblicano.

La situazione potrebbe ad ogni modo diventare ancora più fluida nelle prossime settimane, soprattutto se, come sembra, la maggioranza al Senato dovesse essere decisa dalla competizione per un singolo seggio, quello della Georgia. Il senatore democratico in carica, Raphael Warnock è in vantaggio sul repubblicano Herschel Walker, ma, non avendo superato la soglia del 50%, il 6 dicembre prossimo si terrà un caldissimo ballottaggio.

Per quanto riguarda infine i possibili riflessi politici di un voto che nel complesso ha penalizzato la Casa Bianca e il Partito Democratico, è possibile ipotizzare alcuni scenari che prenderanno vita dopo l’insediamento del nuovo Congresso a gennaio. Il controllo repubblicano della Camera e delle rispettive commissioni potrebbe in primo luogo innescare indagini sugli affari della famiglia Biden, soprattutto in relazioni ai rapporti con l’Ucraina, fino ad arrivare addirittura a una procedura di impeachment.

Un altro elemento di rilievo sia per il fronte domestico che internazionale è poi quello del sostegno al regime di Zelensky nel conflitto in corso con Mosca. La crociata anti-russa è una questione rigorosamente bipartisan a Washington, ma nelle ultime settimane sono diventati di dominio pubblico i malumori di una parte del Partito Repubblicano per i continui stanziamenti di denaro e armi a favore di Kiev.

Con una crisi economica sempre più pesante e un livello di inflazione in continua ascesa, in molti soprattutto tra l’ala trumpiana del partito potrebbero cercare di mettere un freno alle politiche promosse dall’amministrazione Biden sull’Ucraina. Nella migliore delle ipotesi, il risultato potrebbe essere un qualche rilancio del negoziato con Mosca, in particolare se dovessero esserci sviluppi favorevoli al regime di Zelensky nella battaglia in corso nella regione di Kherson.

Se così fosse, si tratterebbe in definitiva di una delle pochissime conseguenze positive, assieme alla sconfitta di un Partito Democratico dominato da guerrafondai e finti progressisti, del sostanziale successo dei repubblicani nel voto di “metà mandato”.

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