Non è bastato il comportamento predatorio in Siria, né quello in Libia, né la repressione violenta del dissenso in patria. Non è bastata la persecuzione dei curdi, né la violazione dei diritti umani dei profughi siriani, afgani e iracheni (che imprigiona su nostro pagamento, per evitare che arrivino in Europa). Non è bastato nemmeno il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Ci è voluto il “sofagate” per bollare Recep Tayyip Erdogan come “dittatore”.

 

Di per sé, l’epiteto non è sbagliato: uno che arresta giornalisti e avvocati non compiacenti lasciandoli morire in cella può benissimo, anzi deve essere considerato un dittatore. Solo che fino a pochi giorni fa, per convenienza, l’Europa si era coperta gli occhi di fronte a ogni turpitudine del presidente turco. Del resto, la Turchia è uno dei membri più importanti della Nato, ha un esercito potentissimo e svolge un ruolo decisivo su diversi fronti geopolitici. Cosa vuoi che ci importi dei curdi che uccide, dei migranti che sevizia, delle donne che umilia o della violenza che usa contro gli oppositori interni? Certo, qualche rimprovero arriva di quando in quando: Bruxelles, ufficialmente, prende le distanze. Sono però rimbrotti di facciata, dietro ai quali il flusso degli accordi e degli affari (armi in primis) non solo non s’interrompe, ma nemmeno rallenta.  

La sedia mancante, invece, è un affronto intollerabile. Per chi se lo fosse perso, ecco un breve riassunto del pasticciaccio di Ankara. La settimana scorsa la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, sono andati insieme a incontrare il presidente turco. Il vertice si è svolto a favore di telecamere e, ancor prima che iniziasse, era già diventato un caso diplomatico. Le poltrone riccamente decorate erano solo due: una per Erdogan, l’altra per Michel. I due uomini.

Dopo un attimo gelo antartico, Von der Leyen è stata invitata ad accomodarsi su un divano assai meno sfarzoso e soprattutto in disparte rispetto ai due scranni virili.

La faccenda è senza dubbio una porcheria sessista, perché sei anni fa - nella stessa situazione - le due massime cariche europee erano ricoperte da maschi (Jean Claude Juncker e Donald Tusk) e il cerimoniale turco aveva previsto tre sedie di pari dignità. D’altra parte, stavolta alla preparazione della sala hanno partecipato anche gli uomini di Michel, perciò a monte del “sofagate” c’è anche (se non soprattutto) l’invidia del politico belga nei confronti della collega tedesca.

Ma veniamo al nostro Paese. Ventiquattro ore dopo il fattaccio, durante una conferenza stampa incentrata sulla campagna vaccinale, il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, si è espresso in questi termini: “Non condivido il comportamento di Erdogan, credo che sia stato inappropriato. Mi è dispiaciuto moltissimo per l'umiliazione che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dovuto subire. Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell'esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio”. Cioè? Un giusto equilibrio fra tutela dell’Europa e menefreghismo nei confronti degli altri? Speriamo di aver capito male.

In effetti, la sparata di Draghi non sembra tutelare gli interessi italiani in senso stretto. Offesi dall’insulto, i turchi hanno prima convocato l’ambasciatore italiano per chiarimenti, poi sono passati al contrattacco. In assenza di scuse ufficiali da Palazzo Chigi, Ankara ha congelato una maxicommessa che stava per accordare al gruppo Leonardo: oltre 150 milioni di euro per rinnovare la flotta di elicotteri in dotazione alla scuola delle forze armate turche. Avvertimenti dello stesso tipo sono arrivati anche ad altre tre aziende italiane attive in Turchia, tra cui Ansaldo Energia.

A ben vedere, il sultanato di Erdogan non è affatto un mercato secondario per l’Italia. Prima del Covid, l’interscambio fra i due Paesi era arrivato a toccare i 17 miliardi di euro l’anno e nel 2018 la Turchia è stato il primo Paese della Nato per l’export italiano nel settore della difesa. Tante buone ragioni, insomma, per cercare un “giusto equilibrio” fra i nostri interessi e la nostra ipocrisia.

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