Una gravissima esplosione avvenuta nella giornata di domenica ha causato danni molto estesi all’impianto nucleare civile iraniano situato nella località di Natanz. Anche se non ci sono rivendicazioni ufficiali per l’operazione, tutti gli indizi sembrano portare a Israele. L’attentato, di fatto di natura terroristica, dimostra ancora una volta come l’unica “democrazia” mediorientale promuova i propri obiettivi di politica estera attraverso la violenza deliberata. In questo caso, l’attacco punta a boicottare o, quanto meno, a complicare ancora di più i negoziati in corso a Vienna per la riattivazione del trattato sul nucleare della Repubblica Islamica (JCPOA).

 

Nell’impianto sarebbe stato provocato un danno alla rete elettrica che ha causato un’esplosione che il numero uno dell’Organizzazione per l’Energia Atomica Iraniana, Ali Akbar Salehi, ha definito “terrorismo nucleare”. La stampa occidentale ha offerto alcune informazioni sui presunti danni provocati a Natanz ancora prima che le autorità iraniane si siano espresse pubblicamente in proposito. Il New York Times ha citato fonti di intelligence americane e israeliane che non solo hanno confermato il ruolo di Tel Aviv, ma hanno anche spiegato come l’Iran dovrà spendere almeno nove mesi per ristabilire in questo sito la produzione di uranio arricchito ai livelli precedenti l’esplosione di domenica.

I giornali dello stato ebraico, come ad esempio il Jerusalem Post, hanno attribuito apertamente al Mossad l’operazione, ipotizzando un “cyber-attacco” che ha causato il blackout nell’impianto di Natanz. Questa versione potrebbe però non corrispondere a quanto accaduto realmente e sarebbe forse il tentativo, tutt’altro che inedito, di confondere le acque e ingigantire le capacità del servizio segreto estero di Israele.

Alcuni analisti anche in Occidente hanno fatto notare infatti come il complesso di Natanz disponga di un impianto elettrico autonomo e con svariati livelli di sicurezza. Perciò, come sostiene tra gli altri Ali Vaez del think tank International Crisis Group, la tesi più probabile è che il danno sia stato provocato da una “infiltrazione fisica”. Il ricorso a infiltrati in territorio iraniano è del tutto plausibile, visti i collegamenti tra Israele e gli Stati Uniti con gruppi anti-governativi, e la stessa ipotesi era emersa lo scorso novembre in merito all’assassinio, sempre con la regia israeliana, dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh.

Lunedì, la stampa iraniana ha riportato i commenti di agenti dell’intelligence di Teheran, secondo i quali il responsabile materiale dell’accaduto sarebbe stato individuato, anche se non ancora arrestato. Il ruolo di Israele appare comunque più che probabile. I massimi esponenti politici e militari dello stato ebraico sono sembrati d’altra parte confermare indirettamente il loro coinvolgimento con dichiarazioni pubbliche rilasciate già nella giornata di domenica.

Il capo di Stato Maggiore, generale Aviv Kochavi, ha affermato che “le azioni delle Forze Armate israeliane in Medio Oriente non vengono nascoste agli occhi dei nostri nemici”. Questi ultimi, ha aggiunto, “ci osservano, valutano le nostre capacità e considerano attentamente i loro prossimi passi”. Il premier Netanyahu ha invece parlato di come “la battaglia contro l’Iran, i suoi alleati e i suoi armamenti sia un impegno enorme”, ma “la situazione odierna non sarà necessariamente quella di domani”.

Al di là delle frasi sibilline e dei dettagli dell’operazione, la tempestività e la disinvoltura con cui è stata sollevata la responsabilità di Israele indica come il boicottaggio dell’impianto di Natanz rappresenti un messaggio inequivocabile della posizione di Tel Aviv riguardo i colloqui di Vienna. Attraverso atti di vero e proprio terrorismo, peraltro tutt’altro che insoliti, Israele intende far naufragare le trattative in corso.

Le opzioni israeliane sono in realtà molteplici. Oltre a provocare una reazione iraniana che farebbe saltare con ogni probabilità il summit di Vienna e affonderebbe definitivamente il JCPOA, l’attacco di domenica serve in teoria anche a ridurre il potere negoziale di Teheran. In altre parole, con il proprio programma nucleare così danneggiato, la Repubblica Islamica potrebbe non essere più in grado di estrarre concessioni dagli Stati Uniti in cambio della rinuncia ai progressi fatti a Natanz nell’ultimo anno. Che l’obiettivo fosse questo è confermato anche dal fatto che, proprio il giorno prima dell’attentato, le autorità iraniane avevano celebrato la messa in funzione di centrifughe di nuova generazione, frutto del lavoro seguito a un’altra esplosione attribuita a Israele e avvenuta nel luglio del 2020.

La gravità degli attentati israeliani, possibili solo grazie all’appoggio o alla mancata condanna degli Stati Uniti e dei loro alleati, crea uno spinoso dilemma per la Repubblica Islamica. L’imperativo di rispondere alle provocazioni di Tel Aviv si scontra infatti con la necessità di limitare al minimo le tensioni in un frangente in cui potrebbe essere rimesso in piedi l’accordo sul nucleare, con la conseguente sospensione delle sanzioni reintrodotte dall’amministrazione Trump.

Le difficoltà per l’Iran sono aumentate lunedì dopo l’incomprensibile decisione dell’Europa di imporre una serie di sanzioni contro esponenti delle forze di sicurezza iraniane, incluso il comandante dei Guardiani della Rivoluzione, generale Hossein Salami, per la repressione delle proteste popolari del 2019. Misure incomprensibili, vista la concomitanza con le discussioni a Vienna, e soprattutto ipocrite alla luce del comportamento violento delle forze di polizia in svariati paesi europei nel reprimere dimostrazioni popolari negli ultimi anni, a cominciare da Francia e Gran Bretagna. Il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Saeed Khatibzadeh, ha minacciato contro-sanzioni e la sospensione del dialogo con Bruxelles in vari ambiti, dal terrorismo al traffico di stupefacenti e ai rifugiati.

In riferimento ai colloqui sul JCPOA, resta da valutare anche il grado di coinvolgimento di Washington nei fatti di Natanz o, quanto meno, se Israele abbia informato l’amministrazione Biden in anticipo o, ancora, se da questa abbia ricevuto il via libera. Nelle stesse ore in cui si verificava l’esplosione, il segretario alla Difesa USA, Lloyd Austin, si trovava in visita in Israele e, se fosse stato messo di fronte al fatto compiuto senza preavviso, la mossa di Netanyahu rappresenterebbe un grave affronto al suo principale alleato. Le differenze tattiche tra Netanyahu e Biden sull’approccio al file iraniano sono ben note, anche se i rispettivi obiettivi strategici restano in larga misura allineati anche dopo l’uscita di scena di Trump.

È ad ogni modo probabile che le operazioni anti-iraniane di Israele proseguiranno nel tentativo di far sentire la propria voce a Vienna e, nel caso venga siglato un accordo tra USA e Iran sul nucleare, per cercare di farlo saltare. Nella stessa direzione dell’attentato di Natanz andava anche l’esplosione di settimana scorsa provocata ai danni di un’imbarcazione commerciale iraniana nel Mar Rosso. Anche in quel caso, i sospetti si erano subito indirizzati su Tel Aviv.

Le ultime fasi dei negoziati in corso a Vienna diranno nei prossimi giorni quali effetti potranno avere gli atti di terrorismo condotti da Israele. Nel frattempo, i lavori stanno proseguendo con l’attivazione di due gruppi creati appositamente per studiare le iniziative che dovrebbero essere adottate da Stati Uniti e Iran al fine, da un lato, di sospendere le sanzioni e, dall’altro, di tornare a rispettare i limiti all’arricchimento dell’uranio imposti dalla firma sul JCPOA nel 2015.

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