I colloqui sul nucleare iraniano iniziati mercoledì a Vienna sono il primo segnale concreto dall’inizio della presidenza Biden delle intenzioni di risolvere la crisi tra Washington e Teheran riesplosa durante l’amministrazione Trump. Qualche timidissimo motivo di ottimismo è emerso al termine del primo round di incontri, anche se restano ostacoli non indifferenti sulla strada verso la definitiva riattivazione dell’accordo del 2015 (JCPOA). A fare la differenza sarà la volontà politica del governo americano di cancellare il cumulo di sanzioni imposte negli ultimi anni contro la Repubblica Islamica.

 

Il formato dei negoziati è già di per sé sintomatico della sfiducia che regna nella capitale austriaca. La delegazione iraniana sta avendo infatti rapporti diretti solo con i rappresentanti di Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, ovvero i cinque firmatari del JCPOA che ancora aderiscono formalmente all’accordo. Gli inviati degli Stati Uniti sono invece alloggiati in una struttura diversa e comunicano con gli iraniani solo attraverso i diplomatici degli altri paesi partecipanti al summit.

La prima tranche dei colloqui è stata comunque giudicata in maniera prudentemente positiva dalle varie parti. Soprattutto il governo di Washington ha optato per toni piuttosto incoraggianti. Il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price, ha parlato di processo “costruttivo” e “potenzialmente utile”. La reazione più favorevole in campo iraniano è stata prevedibilmente quella del presidente Rouhani, il quale ha ribadito la disponibilità del suo paese a tornare a rispettare i termini dell’accordo, sempre che gli USA facciano la loro parte per primi.

La posizione della Repubblica Islamica è molto chiara fin dall’inizio, così come sarebbe stato teoricamente semplice ristabilire la situazione precedente all’uscita degli Stati Uniti dal JCPOA, decisa unilateralmente da Trump nel 2018. Washington è oggettivamente in violazione dell’accordo e, come ha sempre assicurato l’Iran, un’inversione di rotta da parte americana, con la cancellazione delle sanzioni, sarebbe seguita dall’immediato ritorno della Repubblica Islamica al rispetto dei limiti imposti dall’accordo al proprio programma nucleare.

I colloqui proseguiranno a Vienna ancora per alcuni giorni, con il secondo incontro previsto per venerdì. Già mercoledì è però emerso un elemento abbastanza significativo e forse in grado di sbloccare la situazione. Sempre il portavoce del dipartimento di Stato USA ha fatto sapere che la Casa Bianca è disposta a valutare la sospensione di alcune sanzioni “non collegate al programma nucleare” dell’Iran.

Per comprendere le implicazioni di questa dichiarazione è necessario ricordare la strategia anti-iraniana dell’amministrazione Trump. L’ex presidente americano aveva cioè reintrodotto non solo le sanzioni connesse alla questione del nucleare, annullate dopo la stipula del JCPOA nel 2015, ma ne aveva imposte molte altre contro individui ed entità della Repubblica Islamica sulla base di accuse di altra natura, dal presunto sostegno di questo paese al terrorismo alla violazione dei diritti umani, fino allo sviluppo di un programma missilistico convenzionale ritenuto illegale.

Tutte queste misure punitive che nulla hanno a che fare con il nucleare sono ora politicamente difficili da cancellare per Biden. Il Partito Repubblicano, gli ambienti “moderati” di quello democratico, Israele e le lobby anti-iraniane sono contrari a una rimozione integrale delle sanzioni e, visti anche i fragili equilibri politici su cui può contare l’amministrazione Biden, non è chiaro quanto capitale quest’ultima intenderà investire su una soluzione diplomatica della crisi iraniana.

Per provare a risolvere questo dilemma, la Casa Bianca vorrebbe impostare un meccanismo graduale di reciprocità che prevede concessioni parziali da parte americana, seguite di volta in volta da iniziative iraniane. Il governo di Teheran ha però sempre respinto questa ipotesi e non senza ragioni. Lo sforamento dell’Iran di alcuni limiti all’arricchimento dell’uranio imposti dal JCPOA è infatti legittimato dai termini dell’accordo stesso, poiché è la conseguenza dell’uscita da esso degli USA. Per questa ragione, l’Iran chiede che Biden annulli tutte le sanzioni preventivamente prima di tornare a sua volta al rispetto del JCPOA.

Il riferimento del dipartimento di Stato americano alla possibilità di cancellare alcune sanzioni “non collegate al programma nucleare” va quindi in teoria nella direzione giusta. Tuttavia, gli Stati Uniti insistono per il momento in un approccio graduale, che la Repubblica Islamica non intende accettare, escludendo invece iniziative unilaterali. Che poi l’Iran possa valutare un relativo ammorbidimento delle proprie posizioni non è da escludere del tutto.

Nei prossimi giorni potrebbero esserci altri sviluppi in grado di chiarire le reali prospettive dei negoziati in corso. Un segnale della possibile apertura iraniana è arrivato ad esempio dal giudizio espresso alla proposta americana da uno dei rappresentanti del governo russo a Vienna, Mikhail Ulyanov. Mercoledì, quest’ultimo ha definito “equilibrata” l’offerta della diplomazia USA.

L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali in Iran, che porteranno quasi certamente alla vittoria un conservatore, e della scadenza di un’intesa tra Teheran e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), che ridurrebbe la capacità di supervisione del programma nucleare iraniano, rendono inoltre urgente una soluzione diplomatica.

Al di là dello scontro sulle sanzioni, ciò che va considerato è il clima generale in cui si inseriscono la vicenda iraniana e i colloqui di Vienna. Come spesso è stato detto da analisti e commentatori in questi mesi, il quadro mediorientale odierno è molto diverso da quello del 2015 o anche solo del 2018. L’equazione è insomma cambiata e sembra che la riesumazione del JCPOA serva più agli Stati Uniti che all’Iran.

Nonostante le difficoltà economiche, determinate in larga misura dalle sanzioni USA, la Repubblica Islamica si trova oggi in una posizione più solida dal punto di vista strategico. Basti pensare all’influenza che esercita in Siria, Libano, Iraq e Yemen, oppure al consolidamento di partnership fondamentali con potenze come Russia e, soprattutto, Cina. Il tutto ottenuto praticamente senza i presunti benefici che avrebbero dovuto arrivare dall’accordo di Vienna.

Il calcolo dell’amministrazione Biden si basa invece sulla necessità di mantenere i piedi ben piantati in Medio Oriente, a fronte della crescente competizione con Mosca e Pechino, senza scatenare un altro conflitto armato, cercando perciò di impedire l’integrazione dell’Iran nelle dinamiche multipolari che passano appunto attraverso l’Asia sud-occidentale. Non è d’altra parte un caso che l’accelerazione del processo diplomatico sulla questione del nucleare iraniano, di per sé passata in secondo piano, è scattata poco dopo la stipula di un mega-accordo di sviluppo tra Teheran e Pechino.

Per il momento, le operazioni a Vienna proseguiranno con la formazione di due gruppi di lavoro che dovranno occuparsi rispettivamente delle modalità con cui gli USA sospenderanno le sanzioni e dei passi attraverso i quali l’Iran tornerà al rispetto dei limiti all’arricchimento dell’uranio previsti dal JCPOA. Sullo sfondo, intanto, restano le minacce formidabili contro una soluzione diplomatica, testimoniate in modo esemplare dall’esplosione, provocata martedì da un “commando” israeliano, di una nave mercantile iraniana che stava operando nel Mar Rosso assieme a un’agenzia delle Nazioni Unite.

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