di Fabrizio Casari

Sull’l’Iran tornano a soffiare i venti di guerra. Vuoi per l’inconciliabilità delle posizioni tra Washington e Teheran, vuoi per le prese di posizioni europee che nella ricerca di una mediazione possibile si scontrano con il “no” pregiudiziale di Stati Uniti e Gran Bretagna, il timore di un attacco militare statunitense all’Iran torna di preoccupante attualità. Le pretese occidentali di proibire la messa a punto dei reattori nucleari iraniani, che Teheran assicura destinati solo ad usi civili, si fondano, all’apparenza, sul rischio che il regime teocratico possa assumere un ruolo di primo piano nello scacchiere atomico. D’altra parte, le posizioni politiche del Presidente Ahmadinejad, certo non aiutano a fidarsi delle assicurazioni circa la destinazione d’uso del plutonio. In questo contesto, l’Amministrazione Usa ha deciso di scatenare una vera e propria offensiva mediatica e diplomatica che, farebbe presupporre, potrebbe evolvere in una di tipo militare. Le informazioni che la Casa Bianca e Langley fanno filtrare sulla operatività degli agenti iraniani in Iraq, si sommano a quelle secondo le quali sarebbero iraniane le bombe ad alto potenziale utilizzate dalla guerriglia irachena dal 2004 ad oggi e che avrebbero causato la morte di 170 soldati statunitensi. Ora Washington afferma di essere in possesso di prove che confermerebbero le loro accuse. Ad offuscare il quadro c’è da tener presente che se dall’aggressione alla Libia nel 1996, fino a quella all’Iraq, la storia delle prove inoppugnabili si è sempre rilevata una menzogna indiscutibile, è pur vero che le loro menzognere esibizioni si sono sempre rivelate come l’atto d’inizio delle operazioni militari vere e proprie.

C’è dunque di che temere per l’apertura di un nuovo scenario di guerra nel Golfo Persico, ma è ragionavole pensare che le cose non sono così semplici come la stampa neocon cerca di descrivere. Molte sono infatti le incognite cui deve far fronte Washington, tanto sul piano politico che militare. Proviamo intanto ad analizzare la situazione interna.
In primo luogo, gli Stati Uniti non dispongono della forza necessaria per attaccare Teheran mentre sono impegnati (e assai mal messi) in Iraq e in Afghanistan. Pochi giorni or sono Bush si è trovato in estrema difficoltà di fronte al Congresso per reperire i fondi necessari al proseguimento dell’occupazione dell’Iraq e davvero non si capisce da quali maglie del bilancio Usa dovrebbero venire le centinaia di miliardi di dollari necessari all’apertura di un nuovo fronte di guerra. In secondo luogo l’Amministrazione Bush non riscuote del benché minimo livello di credibilità interna, essendosi consumata sulle bugie delle cause prima e della conduzione poi della guerra irachena. A ciò si deve aggiungere la difficoltà di un Presidente ad autorizzare una guerra nel suo ultimo anno di mandato, per di più privo del controllo di Congresso e Senato. Da ultimo, ma non per ultimo, le risorse di uomini e mezzi, la contrarietà di buona parte dei vertici militari ad un’altra avventura che sommerebbe sconfitta a sconfitte, pone la Casa Bianca in una condizione d’isolamento oggettivo, specchio di una Amministrazione che ha raggiunto il minimo storico nei sondaggi d’opinione e che è reduce da una pesante sconfitta elettorale nelle elezioni di mid term. Senza contare l’improbabilità di mantenere l’alleanza con gli sciiti a Baghdad mentre si attacca il governo sciita a Teheran…

Sul piano internazionale, poi, le difficoltà non sono minori. L’Onu non darebbe mai la copertura politico-diplomatica ad un’altra avventura militare e la ridottissima credibilità di Bush presso la comunità internazionale è un elemento determinante che rafforza il gruppo dei Paesi contrari ad una eventuale guerra con l’Iran. La stessa Europa, pure disponibile ad un giro di vite nei confronti di Ahmadinejad, non ha nessuna intenzione di seguire gli Stranamore di Washington. Il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha infatti ammonito Teheran ad assoggettarsi ai richiami dell’Aiea, ma con vigore ancora maggiore ha spiegato a Putin, ai suoi interlocutori arabi e alla stessa casa Bianca, che se la minaccia dei piani atomici di Teheran “è grossa”, un’azione militare Usa sarebbe una “catastrofe”. Gli Stati Uniti, ovviamente, hanno preso atto delle distanze ed il settimanale tedesco Der Spiegel ha sottolineato che “descrivere come divergenti le posizioni di Bonn e Washington sulla risposta da fornire a Teheran, sarebbe già minimizzare”.

Del resto l’incapacità di esercitare una leadership occidentale credibile da parte della Casa Bianca si somma all’interesse economico e politico che la Ue ha nei confronti dell’Iran. Si deve aggiungere poi che la situazione mediorientale, che gli Usa ritengono meno importante, ha invece per la Ue una importanza strategica e che gli sforzi di Bruxelles sembrano piuttosto concentrarsi in quella direzione. In ogni caso è chiaro che il riassetto degli equilibri internazionali è tema infinitamente più caro che non accodarsi a Bush nella sua ennesima ossessione interessata. L’intesa con Mosca ed il dialogo con la Cina e l’India sono i temi più caldi dell’agenda di politica estera del Vecchio Continente ed un sostegno alle iniziative unilaterali ed isolazioniste di Washington striderebbe non poco con il progressivo affrancamento che in Iraq e in Libano ha segnato un mutamento di rotta significativo delle cancellerie europee. Quanto alla situazione iraniana, la Ue ritiene che lo scontro interno alla Repubblica islamica e il progressivo venir meno dell’autorità di Ahmadinejad di fronte alla ripresa dei moderati guidati da Rafsanjiani, sia un elemento da sfruttare politicamente. Una eventuale azione di forza riuscirebbe solo a riunificate il paese persiano sotto l’ala oltranzista, e produrrebbe solo il disastro politico insieme ad una possibile sconfitta sul campo. E’ comunque probabile che Washington usi la minaccia di un’azione militare contro l’Iran per poi chiedere agli europei un maggiore impegno in Afghanistan ed è possibile che quest’ultimo sia la moneta di scambio destinata a suggellare la mediazione tra le due sponde dell’Atlantico.

All’Amministrazione Bush restano quindi due strade: quella di un ritorno sui suoi passi, magari in presenza di un accordo in sede Aiea e Onu, oppure la delega a Israele per un’azione di forza unilaterale sul modello di quella che distrusse il reattore nucleare di Baghdad. Ma anche Tel Aviv, almeno per ora, non sembra muoversi: troppo presto o troppo tardi?

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