I riflessi del caso Khashoggi hanno portato questa settimana negli Stati Uniti a un primo timidissimo passo del Congresso verso lo stop agli aiuti militari destinati alla guerra condotta dal regime saudita nello Yemen. Allo stesso tempo, l’amministrazione Trump ha riconfermato la piena fiducia nei vertici della monarchia wahhabita, incluso l’erede al trono Mohammed bin Salman (MBS), giustificando in sostanza qualsiasi crimine o atrocità in nome degli interessi strategici americani.

 

Attorno allo Yemen e alle responsabilità saudite nell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi si è scatenato da qualche settimana un aperto conflitto all’interno delle istituzioni americane. Da un lato, molti membri del Congresso stanno dando voce alle preoccupazioni di determinati ambienti di potere, tra cui la comunità dell’intelligence, per il comportamento della leadership saudita. L’amministrazione Trump, dall’altro, continua invece a difendere il principe Mohammed bin Salman, in quanto elemento centrale della propria strategia mediorientale.

 

Queste divisioni sono esplose pubblicamente mercoledì con una serie di eventi programmati al Congresso di Washington che hanno finito per inasprire i toni dello scontro tra le due fazioni della classe dirigente d’oltreoceano. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, e quello alla Difesa, James Mattis, sono stati sentiti dai senatori a porte chiuse sulla questione Khashoggi. L’audizione ha avuto l’effetto esattamente contrario di quello auspicato dalla Casa Bianca, con alcuni degli stessi senatori che hanno manifestato la loro irritazione nei confronti dei due esponenti dell’amministrazione Trump.

 

Una parte delle frustrazioni è dovuta alla mancata apparizione al Senato del direttore della CIA, Gina Haspel, la cui testimonianza era stata richiesta apertamente. La numero uno dell’agenzia di Langley si era recata qualche settimana fa in Turchia per conferire con le autorità locali sulla vicenda Khashoggi ed aveva ascoltato la registrazione fatta dall’intelligence turca dell’assassinio del giornalista all’interno del consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre scorso.

 

La sua presenza, oltre a essere consueta in eventi di questo genere, era perciò apparsa logica e doverosa. Anche perché, recentemente, era trapelata la notizia delle conclusioni tratte dalla CIA sull’uccisione di Khashoggi e la principale agenzia di intelligence americana aveva in pratica puntato il dito contro il principe Mohammed bin Salman.

 

L’assenza della Haspel, secondo la stampa USA, sarebbe stata imposta proprio dalla Casa Bianca. Viste le divergenze sulle responsabilità nella morte di Khashoggi, la decisione di Trump è stata presa quindi per evitare una situazione a dir poco imbarazzante. La numero uno della CIA avrebbe dovuto infatti contraddire la versione di Pompeo e Mattis oppure mentire sotto giuramento ai senatori americani.

 

I due rappresentanti dell’amministrazione Trump avevano sottoposto delle dichiarazioni scritte ai senatori poco prima dei rispettivi interventi e, in seguito, il contenuto è stato pubblicato dai giornali. Sia Pompeo sia Mattis hanno in primo luogo negato che la stessa intelligence americana abbia la certezza delle responsabilità di MBS nell’ordinare l’assassinio di Khashoggi, mentre per quanto riguarda lo Yemen hanno entrambi offerto una ricostruzione del tutto insensata del conflitto e del ruolo dei paesi che vi prendono parte.

 

In uno dei passaggi più significativi, Mattis ha affermato che “gli interessi legati alla sicurezza [degli USA] non possono passare in secondo piano per individuare i responsabili dell’assassinio di Khashoggi”. Washington, d’altra parte, “raramente può permettersi di lavorare con partner senza macchia”. Il numero uno del Pentagono ha ammesso cioè che gli interessi americani in Medio Oriente dipendono da Riyadh e che, per salvaguardarli, gli Stati Uniti sono disposti a passare sopra, se non a collaborare, a qualsiasi crimine commesso da questo regime.

 

Lo stesso Mattis ha poi sostenuto che il supporto militare americano all’Arabia Saudita è necessario “per il bene della popolazione” civile dello Yemen e, senza di esso, la situazione sarebbe anche peggiore. Quale potrebbe essere uno scenario peggiore di quello attuale, con decine di migliaia di morti, 14  milioni a rischio carestia e 85 mila bambini già morti di fame, né il segretario alla Difesa né quello di Stato hanno ritenuto opportuno ipotizzarlo.

La loro attenzione si è rivolta piuttosto all’Iran, accusato senza prove concrete di finanziare e armare i “ribelli” Houthis che in Yemen combattono contro il governo deposto nel 2015 e sostenuto da USA e Arabia Saudita. La guerra in questo paese è infatti ormai uno dei fronti su cui si combatte lo scontro per la supremazia in Medio Oriente, con al centro appunto la rivalità tra Riyadh e Teheran.

 

Gli interventi di Mattis e Pompeo hanno avuto pochi effetti concreti sul successivo voto in Senato relativo alla mozione che chiede la fine degli aiuti militari alla monarchia saudita. Con 63 voti a favore e 37 contrari la proposta ha superato un ostacolo procedurale che dà il via libera al dibattito in aula e alla presentazione di eventuali emendamenti. In seguito a esso, il Senato sarà chiamato ad approvare o a respingere la mozione vera e propria.

 

Anche in caso di esito positivo, è in ogni caso altamente improbabile che la leadership repubblicana di maggioranza uscente alla Camera dei Rappresentanti decida anche solo di portare in aula il provvedimento nelle prossime settimane, visto il passaggio di consegne ai democratici a inizio gennaio. Un’eventuale approvazione definitiva della mozione, infine, finirebbe per imbattersi nel veto già minacciato dal presidente Trump.

 

Le probabilità che Washington interrompa le forniture di armi e la partnership logistica e di intelligence con l’Arabia Saudita sono dunque minime. Gli scrupoli del Congresso o, tantomeno, le accuse della CIA al principe Mohammed bin Salman hanno comunque poco a che vedere con i crimini della monarchia sunnita del Golfo Persico nello Yemen o a Istanbul.

 

L’opposizione emersa contro la fermezza della Casa Bianca nel difendere il regime saudita è piuttosto l’espressione di un punto di vista differente sulla questione, ma solo di natura tattica, riconducibile a una fazione dell’apparato di potere americano. Questa contrapposizione è da collegare in primo luogo al ruolo destabilizzante dello stesso MBS, a cui è delegato gran parte del potere in Arabia Saudita, e alla sua immagine ormai profondamente screditata.

 

L’erede al trono ha ad esempio infiammato le rivalità tra le monarchie del Golfo alleate di Washington, soprattutto attraverso il boicottaggio del Qatar, dove gli Stati Uniti mantengono la più importante base militare del Medio Oriente. Inoltre, allo stesso giovane principe si devono le persecuzioni e la marginalizzazione di numerosi appartenenti alla famiglia reale e al mondo del business saudita, tra cui spiccano “asset” dell’intelligence americana.

 

A questo proposito, non è un caso che proprio la CIA si sia espressa contro MBS nella vicenda Khashoggi. L’ascesa a numero due del regime di MBS era avvenuta infatti a discapito del principe considerato vicinissimo a Langley, Mohammed bin Nayef, ex erede al trono finito ora in disgrazia.

 

In molti a Washington, infine, vedono la guerra nello Yemen come una fastidiosa distrazione, mentre non sembrano gradire alcuni aspetti della politica estera spregiudicata dell’Arabia Saudita sotto la guida di Mohammed bin Salman. Quest’ultimo, sia pure in un quadro di fedeltà agli USA e di apertura a Israele, ha promosso un certo rafforzamento dei legami energetici, commerciali, strategici e anche militari con Cina e Russia. La sua eventuale caduta verrebbe vista perciò come un’opportunità per piegare il regno saudita ancor più agli interessi degli Stati Uniti nell’ambito della competizione crescente con Mosca e Pechino a livello globale.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy