Nella decisione di Trump di annullare il vertice bilaterale con Putin, nell’ambito del G20 di Buenos Aires, non vi sono motivazioni sostanziali, bensì di propaganda: si imputa a Mosca di aver “provocato” Kiev, cioè di aver sequestrato i mezzi e fatto prigioniero l’equipaggio di due imbarcazioni della marina ucraina che pochi giorni prima avevano violato le acque territoriali della Russia. I due leader hanno comunque trovato il modo di incontrarsi ma il vertice, necessario quanto urgente, è rimasto sotto le macerie del teatrino di Kiev.

 

L’Ucraina ed il suo indecente governo tornano così al centro della politica internazionale e lo fanno nell’unico ruolo che gli si assegna: l’agente provocatore contro la Russia. Dal canto suo Mosca é perfettamente consapevole che la provocazione di Kiev é stata montata ad arte per fornire un pretesto all’annullamento del vertice ma, tanto per non inviare segnali ambigui, ha ordinato a navi da guerra dotate di missili di recarsi a pattugliare e presidiare il Mar d’Azov, collegato al Mar Nero dallo Stretto di Kerch.

 

 

Stravagante la lettura europea e statunitense di quanto avvenuto: gli ucraini, che su suggerimento della Nato negli ultimi sei mesi hanno intensificato attentati ed aggressioni, pochi giorni addietro hanno violano intenzionalmente le acque territoriali russe, ma sarebbero i russi a “provocare”. Eppure la difesa della sovranità territoriale è principio cardine dell’ordinamento giuridico internazionale e si applica in ogni dove del pianeta. Ma proprio la cancellazione dell’incontro con Putin rende chiaro il perché della provocazione ucraina: a questo serviva ed a questo è servito.

 

Illuminante, a tal proposito, quanto afferma Poroshenko in una intervista al Corsera, dove si lancia in un delirante invito alla guerra senza quartiere con la Russia. Privo di obiezioni scomode al suo delirio - che pure sarebbe stato semplice proporre vista la proclamazione dello stato d’assedio - il premier ucraino si conferma personaggio pericoloso per la stabilità internazionale ma, contestualmente, appare evidente come sia ancor più pericoloso il sostegno interessato che la Nato gli offre, senza il quale Poroshenko non esisterebbe.

 

E’ in corso infatti un gioco delle parti tra la Nato e l’Ucraina che si fonda su una reciproca utilità, pur essendo chiari i ruoli di pupi e puparo. La Nato, che ha nell’allargamento ad Est la sua strategia principale, è l’ispiratrice della destabilizzazione permanente e della politica di accerchiamento verso la Federazione russa e a tal fine utilizza il regime nazi-oligarchico di Kiev. Poroshenko gli serve per alzare ulteriormente la tensione con Mosca e stimolare l’inevitabile risposta russa, che verrà usata per mettere in moto ulteriori sanzioni, necessarie ad indebolire l’economia russa, ridurne il volume degli investimenti e dell’import-export, ed offrire così vantaggi importanti sui mercati internazionali alle aziende statunitensi.

 

L’Ucraina, da parte sua, utilizza il sostegno Nato e UE per provocare Mosca e contabilizzare il suo ruolo in aiuti finanziari e sostegno politico. Il che serve sia internazionalmente a distrarre l’opinione pubblica internazionale sulla natura nazista del regime guidato da Poroshenko, sia a spostare l’attenzione dal malgoverno  del cioccolataio e a ricompattare in chiave antirussa gli ucraini che tra pochi mesi si recheranno alle urne.

 

Il fatto che il regime nazistoide-oligarchico di Poroshenko, aggredisca militarmente il Donbass ed ora, per propaganda elettorale interna, scelga l’innalzamento della tensione con Mosca come soluzione alla crisi di credibilità di un governo in crisi, non sembra interessare le cancellerie europee. Che, anzi, giocando di sponda con gli USA, ammoniscono Mosca con la minaccia di nuove sanzioni, come se quelle in corso non avessero già dimostrato il loro effetto boomerang, visto che più che la Russia colpiscono i paesi europei che le attuano (l’Italia, da sola, ci rimette 4 miliardi di euro e 15.000 posti di lavoro all’anno nel solo settore agroalimentare).

 

Sul piano della governance globale é improponibile la pretesa europea e statunitense che vorrebbe i russi via dal Donbass, visto che le specificità etniche, storiche, culturali e religiose considerate ininfluenti per la secessione della Crimea e della regione del Donbass sono le stesse alle quali, nel caso del Kosovo, la stessa Europa e Stati Uniti riconobbero valore oggettivo, giustificando la secessione dalla Serbia. Un diritto internazionale a geometrie variabili e fondato sull’ipocrisia, insomma, quello proposto da Washington e Bruxelles.

 

Certo non facilita la distensione con Mosca la scelta di Trump di non riconoscere il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces), firmato nel 1987 da Reagan e Gorbaciov, che imponeva a entrambi gli Stati la distruzione dei missili balistici a medio raggio. Una decisione definita “pericolosa” dal Cremlino che, già in Georgia come in Crimea e in Siria, ha inviato segnali chiari: se qualcuno pensa di giocare con la sicurezza russa, si sbaglia.

 

Con Mosca non funzionano né sanzioni né minacce. Alle prime ha risposto con l’intensificazione degli scambi commerciali con Cina, Iran e Turchia, alle seconde ha già risposto innalzando il livello del suo dispositivo militare. La Russia non ha nessuna intenzione di arrendersi al teatro propagandistico occidentale e, di fronte ad ogni minaccia dei suoi interessi strategici e della propria sovranità, non ha esitato e non esiterà a garantire la propria sicurezza.

 

E non regge la propaganda sulle presunte annessioni russe: Mosca non è a caccia di ulteriore territorio da annettersi, visto che ha nella sua crisi demografica un punto dolente; solo per fare un esempio, nelle regioni di frontiera con la Cina, il rapporto demografico è nettamente a favore dei cinesi per 10 a 1. Lo sanno bene sia gli USA che la UE. Dunque non è di altro territorio che Mosca ha bisogno ma di sicurezza alle sue frontiere, aspetto su cui non prevede ulteriori margini di negoziazione finché la Nato continua a minacciare.

 

I nazi-oligarchi che governano i paesi dell’ex Patto di Varsavia soffiano sul fuoco e ritengono che lo scudo Nato possa intimorire Mosca; non si rendono conto che gli Stati Uniti, come la Gb o la Francia o la Germania, li utilizzano come pedine sacrificabili nel grande risiko internazionale che ha come obiettivo ridurre l’espansione economica e politica russa, ma non rischierebbero un conflitto nucleare per loro. Le politiche di allargamento ad Est della Nato sono una strategia, l’immolarsi dell’Occidente per Varsavia o Budapest o Tirana è una fesseria.

 

La rinuncia statunitense ai colloqui è una occasione persa per Trump, ormai visibilmente non in grado di formulare una agenda di politica estera con Mosca. La partita sul Russiagate è ancora tutta da giocare e ciò che appare evidente, ad una lettura che non si accontenta delle versioni addomesticate dello studio ovale, è che la Casa Bianca non è in grado di sedersi ad un tavolo con i russi, perché non ha l’autonomia politica e l’autorevolezza necessarie per farlo.

 

Le pressioni dei democratici e di una buona parte dell’establishment, si sono poi ulteriormente rinforzate dopo le recenti elezioni di mietermi; adesso l’autonomia di Trump è davvero ridotta e su ogni dossier la Casa Bianca rischia.

 

Sebbene quindi il Presidente USA vada raccogliendo piccoli successi politici nei pronunciamenti dei diversi vertici internazionali, prevale l’interpretazione di un Trump ostaggio di militari, CIA e Congresso. Che tenta di coalizzare la parte più retriva del suo elettorato a colpi di Twitter razzisti e volgari e minacciando i paesi non allineti, ma non riesce a costruire una vera agenda di politica internazionale con le potenze antagoniste, prime fra tutte Russia e Cina.

 

Perché un conto è minacciare Iran, Venezuela, Nicaragua e Cuba, altro è tentare di torcere il braccio a Mosca sulla Siria o a Pechino sul Mar della Cina o sulle politiche commerciali. Le sanzioni a mezzo mondo sono al momento unico atto politico ripetuto del presidente, cui si è accompagnata la figuraccia in Corea de Nord, mentre l’economia peggiora e i consensi si riducono. In questo quadro opera un presidente “anatra zoppa”; si fa dettare l’agenda dai Dem e dalla CIA e non può nemmeno decidere  con chi sedersi.

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