I futuri sviluppi della guerra commerciale in atto tra Cina e Stati Uniti saranno probabilmente modellati dall’incontro che il presidente americano Trump e quello cinese, Xi Jinping, hanno programmato durante il vertice del G-20 nel fine settimana a Buenos Aires, in Argentina. La linea dura nei confronti di Pechino, tenuta finora dalla Casa Bianca, è sembrata vacillare almeno in parte negli ultimi giorni, dopo che l’emergere di una serie di fattori ha evidenziato forse per la prima volta in maniera inequivocabile gli effetti negativi anche per l’economia americana dello scontro sui dazi.

 

 

I giornali d’oltreoceano hanno così ipotizzato una possibile tregua che Trump e Xi potrebbero negoziare, verosimilmente venduta come una vittoria diplomatica del presidente USA. Fonti interne alla Casa Bianca sostengono infatti che Trump potrebbe alla fine decidere di congelare l’aumento, previsto per il primo gennaio prossimo, delle tariffe doganali recentemente imposte su 250 miliardi di dollari di merci cinesi dirette negli USA.

 

L’altra “concessione” in fase di studio è invece il rinvio dell’applicazione di dazi anche sui rimanenti 267 miliardi di merci esportate ogni anni dalla Cina sul mercato americano e che Trump ha più volte minacciato negli ultimi tempi. La sospensione dei nuovi provvedimenti punitivi dovrebbe servire a creare uno spazio di alcuni mesi durante il quale i due paesi proverebbero a trovare un’intesa più ampia in ambito commerciale.

 

La fazione “moderata” all’interno dell’amministrazione Trump è di fatto il motore del possibile rallentamento delle spinte anti-cinesi. L’obiettivo sarebbe quello di non aggiungere altri problemi a quelli accumulatisi in queste settimane, dai segnali negativi provenienti dalla borsa al rialzo dei tassi di interesse, fino al recentissimo annuncio da parte di General Motors del taglio del 15% della forza lavoro in America del Nord.

 

Sulle possibilità di allentare momentaneamente le tensioni con la Cina opera tuttavia da freno la presenza di un gruppo di “falchi” alla Casa Bianca, tra cui il numero uno dell’Ufficio per il Commercio Peter Navarro, che continua a promuovere politiche protezioniste e ultra-nazionaliste anche a costo di provocare aperti conflitti con rivali e alleati. Gli esponenti della linea relativamente morbida includono invece il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il consigliere economico del presidente, Larry Kudlow. Tra le due fazioni è in atto un vero e proprio scontro che rende difficile da prevedere l’atteggiamento di Trump a Buenos Aires.

 

Queste contraddizioni sono emerse in un intervento di fronte alla stampa del consigliere Kudlow nella giornata di martedì. Quest’ultimo ha assicurato che “ci sono buone possibilità di raggiungere un’intesa” a Buenos Aires e che il presidente “è ben disposto” in proposito. Poco dopo, però, Kudlow ha aggiunto che lo stesso Trump, in caso di fallimento, sarebbe “perfettamente a suo agio nel proseguire con le attuali politiche commerciali”.

 

Le distanze tra Washington e Pechino restano comunque notevoli e, a ben vedere, sono in pochi a credere in un appianamento anche parziale delle differenze nel corso del G-20, tantomeno in una soluzione di lunga durata. Trump e Xi, oltretutto, non hanno per ora in agenda un faccia a faccia a margine del summit, ma dovrebbero vedersi e discutere solo durante la cena di gruppo che seguirà le discussioni formali dei vari leader.

 

Da parte americana restano insistenti le pressioni sul governo cinese e le concessioni fatte o promesse finora da Pechino continuano a essere giudicate insufficienti. La Cina ha recentemente sottoposto un elenco di iniziative che sarebbe disposta ad adottare, principalmente per aprire il proprio mercato interno e ridurre le barriere alle importazioni, ma le proposte sono state bocciate da Washington perché “non nuove” e insufficienti.

 

La Casa Bianca non ha nemmeno risposto alla proposta cinese e ha ribadito che l’obiettivo degli USA resta quello di convincere Pechino a considerare provvedimenti che mettano fine al “furto di tecnologia americana” e alle “pratiche commerciali predatorie” che caratterizzerebbero la seconda potenza economica mondiale.

 

Il governo cinese, da parte sua, ha in realtà già ridotto molti dei dazi che impone sulle importazioni di merci, così come le regolamentazioni e i limiti agli investimenti esteri nel proprio territorio. Proprio nei giorni scorsi, le autorità di questo paese hanno poi lasciato intendere di essere disposte a valutare un nuovo consistente abbattimento delle proprie tariffe doganali, anche a beneficio dell’export americano.

 

L’amministrazione Trump insiste tuttavia nel mostrare un atteggiamento di freddezza verso queste proposte cinesi, visto che lo squilibrio della bilancia commerciale non è la ragione principale dello scontro con Pechino. Di gran lunga più importanti per Washington sono, da un lato, le condizioni di accesso al mercato e al sistema finanziario cinese garantite alle compagnie americane e, dall’altro e ancor più, il boicottaggio dei piani di sviluppo tecnologico e industriale implementati dal governo del Partito Comunista Cinese.

 

Precisamente a quest’ultimo aspetto del confronto con Pechino si riferisce l’accusa del “furto di tecnologia” costantemente sollevata dagli Stati Uniti. Essa si sovrappone inoltre alla questione della “catena degli approvvigionamenti” industriali a livello globale, con al centro la Cina e che Washington intende appunto stravolgere e piegare ai propri interessi.

 

Un editoriale di questa settimana della testata governativa cinese Global Times ha identificato in questi elementi il cuore della crescente rivalità sino-americana. L’articolo spiega come lo slogan trumpiano “Make America Great Again” comporti, tra l’altro, una “ricostruzione [favorevole agli USA] della catena industriale mondiale”. Per fare questo, “Washington persegue non solo la riduzione della dipendenza dai prodotti cinesi, ma anche la conservazione del proprio ruolo primario nella catena degli approvvigionamenti”.

 

In termini concreti e più ampi, dietro la guerra commerciale lanciata da Trump c’è l’obiettivo di contrastare la crescita della Cina e l’ambizione di questo paese di diventare, da qui a meno di un decennio, il centro nevralgico del pianeta nella produzione industriale e nella tecnologia d’avanguardia. Questo piano di sviluppo, che si intreccia all’espansione dell’influenza cinese in Asia e non solo, in primo luogo grazie alla cosiddetta “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI), minaccia evidentemente la posizione di superpotenza degli Stati Uniti, basata appunto, in ultima analisi, sulla supremazia tecnologica, industriale e militare.

 

Il fatto che in gioco ci siano simili questioni strategiche cruciali per Cina e Stati Uniti rende quindi altamente improbabile il raggiungimento di un accordo che soddisfi entrambi i paesi, men che meno che esso scaturisca da una discussione al tavolo del G-20 tra Trump e Xi.

 

Per Pechino, d’altra parte, l’accettazione delle condizioni americane in cambio della fine della guerra commerciale significherebbe abbandonare le proprie ambizioni di crescita e la sottomissione completa agli interessi di Washington. Come ha spiegato ancora il già ricordato commento del Global Times, cioè, il successo dell’aggressiva strategia nazionalista americana “avrebbe un impatto devastante sulla crescita industriale cinese, che rappresenta il fondamento stesso dello sviluppo attuale e futuro della nazione”.

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